16 marzo 1978: il giorno in cui le Brigate Rosse rapirono Aldo Moro

Gli anni Settanta sono da sempre riconosciuti come il periodo più turbolento affrontato dal mondo occidentale a partire dal secondo dopoguerra. Gli Stati Uniti (alle prese con la presidenza Nixon) e il blocco di Paesi che ruotavano attorno ad essi attraversavano pesanti difficoltà economiche, determinate soprattutto dall’aumento dei prezzi del petrolio e dalla conseguente crisi energetica del 1973. Questa instabilità – definita con il termine “stagflazione“, per indicare la doppia tendenza alla stagnazione economica e all’inflazione che ne seguì – andò a colpire Paesi in cui, peraltro, iniziavano ad affacciarsi anche difficoltà di carattere politico e tensioni sociali di vario genere. Esplose in Europa Occidentale la grande stagione del terrorismo politico o degli “Anni di Piombo“, nome abbastanza indicativo del clima respirato allora nel continente.

In particolare, in Germania (con la RAF) e in Italia fiorirono diversi gruppi eversivi di estrema destra e di estrema sinistra. Da una parte, i primi cercavano di frenare il crescente consenso del comunismo attraverso una serie di attacchi dinamitardi che creasse paura e insicurezza nella popolazione e giustificasse una nuova svolta di stampo autoritario: la cosiddetta “strategia della tensione” che portò alla Strage di Piazza Fontana del 1969 e quella della stazione di Bologna del 1980. I gruppi della sinistra extraparlamentare, capeggiati dalle Brigate Rosse, cercavano invece di guadagnarsi il consenso delle masse colpendo singole personalità del mondo della politica e della pubblica amministrazione, che simboleggiassero le istituzioni repubblicane da rovesciare per compiere l’agognata rivoluzione proletaria.

Questa necessità sembrò ancora più stringente di fronte a un processo politico che prese il via proprio allora, quello del “compromesso storico“. Enrico Berlinguer, nuovo segretario del Partito Comunista Italiano, auspicò e inaugurò una linea di progressiva cooperazione con le formazioni di centro, in particolare con la Democrazia Cristiana e con il suo presidente Aldo Moro. Un avvicinamento determinato dalla crescita elettorale del Pci e parallelo ad un suo progressivo distacco dalla linea sovietica. I due maggiori partiti italiani avrebbero subito un’evoluzione ideologica che li avrebbe portati oltre i vincoli delle rispettive alleanze dalle due superpotenze mondiali. Una svolta riformista che le Brigate Rosse (dalle quali lo stesso Berlinguer aveva preso le distanze) non potevano certamente sopportare.

16 marzo 1978: il giorno in cui le Brigate Rosse rapirono Aldo Moro

Dal “compromesso storico” all’agguato in via Fani

L’esito fu notoriamente tragico ed ebbe luogo il 16 marzo 1978, esattamente 45 anni fa. Proprio in quel giorno, Berlinguer e Moro avrebbero raccolto i frutti della propria manovra: il nuovo governo, presieduto dal democristiano Giulio Andreotti e per la prima volta sostenuto dal voto dei parlamentari comunisti, si presentava in Parlamento per ottenere la fiducia. Ma Aldo Moro, quella mattina, non arrivò mai a Palazzo Montecitorio: intorno alle nove, la sua auto e quella della sua scorta furono intercettate e bloccate all’altezza di via Fani da un commando brigatista. I terroristi aprirono il fuoco, uccidendo i cinque agenti che accompagnavano Moro; poi, sequestrarono il Presidente della Democrazia.

Ebbero inizio da quel momento cinquantacinque giorni di prigionia, che tennero col fiato sospeso la popolazione italiana: quasi due mesi di ricerche infruttuose, di ricatti e trattative, di fronte alle quali lo Stato si dimostrò intransigente. Scendere a patti con dei terroristi, legittimandoli o scambiando con loro dei prigionieri, avrebbe costituito un pericoloso precedente e denunciato la debolezza della Repubblica. Questa linea, riconosciuta dalla politica come l’unica percorribile, sancì la condanna di Aldo Moro: il 9 maggio le Br lo uccisero e fecero ritrovare il suo corpo nel bagagliaio di una macchina parcheggiata in via Caetani. Una normale strada del centro di Roma, se non fosse significativamente vicina sia a Piazza del Gesù (dove si trovava la sede della Dc) sia a via delle Botteghe Oscure (dov’era la sede nazionale del Pci).

Cinque cose che non tornano di quel 16 marzo 1978

L’agguato di via Fani rappresenta una tappa fondamentale nella storia della Repubblica Italiana, non solo per la sua drammaticità, ma anche per la complessità di un evento i cui retroscena non sono mai stati chiariti del tutto (e probabilmente mai lo saranno). C’erano altri interessi in gioco, anche più in alto? Qualcuno collaborò sottobanco con le Br? Sono domande a cui è difficile dare una risposta: certo è che di quel 16 marzo 1978 restano diversi “buchi nella trama” che abbiamo deciso di analizzare.

Perchè proprio via Fani?

La scelta dell’incrocio tra via Fani e via Stresa come teatro dell’agguato si rivelò decisiva ai fini del suo successo. Proprio per questo ci si interrogò a lungo sulla possibilità che le Brigate Rosse fossero state informate in anticipo del percorso compiuto dalle auto del Presidente. I terroristi agirono con cognizione di causa: non avrebbero altrimenti squarciato le quattro gomme del Ford Transit del fioraio ambulante Antonio Spiriticchio proprio la notte tra il 15 e il 16 marzo. In questo modo, solo in quel preciso giorno gli impedirono di occupare il suo consueto posto su via Fani. Alcuni sostengono che il percorso di Aldo Moro variasse continuamente e che non fosse possibile prevederlo; altri che il politico fosse abbastanza abitudinario nelle sue attività mattutine. Persino le dichiarazioni dei collaboratori di Moro non sono del tutto convergenti a riguardo.

Bar Olivetti

Un’altra attività presente sull’incrocio di via Fani era il bar di Tullio Olivetti, che, a differenza del fioraio, non avrebbe creato nessun problema, poiché chiuso e in stato di liquidazione in quelle settimane. La cosa è confermata anche dalle riprese del Tg1 successive all’attentato: il locale appare con la saracinesca abbassata. Addirittura, i brigatisti (che erano travestiti da avieri) affermarono di aver atteso il passaggio di Aldo Moro nascosti proprio dietro le fioriere di quel bar. Tutto nella norma, se non fosse che alcuni testimoni hanno riferito – molto tempo dopo – di averci preso il caffè o di aver utilizzato il telefono proprio quella mattina. É chiaro che presenze e movimenti interni al Bar Olivetti (mai considerati dalla giustizia) cambierebbero le carte in tavola. Molti dubbi restano anche sulla figura del titolare stesso: un personaggio già molto noto agli ambienti investigativi per aver preso parte a un complesso traffico internazionale di armi, ma esentato da tutte le condanne, a differenza dei suoi complici. Come se qualcuno avesse interesse nel “preservarlo” e nel continuare a collaborare con lui.

L’anticipazione alla radio

Uno degli aspetti che fece più scalpore fu poi la presunta rivelazione anticipata dell’agguato, effettuata ai microfoni di Radio Città Futura dal fondatore Renzo Rossellini. Se l’attentato avvenne intorno alle nove, secondo alcuni, lo speaker si ritrovò ad affermare mezz’ora prima: “Forse rapiscono Moro“. A questo punto, avvennero due cose strane: la prima è che la Polizia mantenne un prolungato silenzio a riguardo e che la magistratura venne informata della trasmissione solo il 27 settembre, quando il caso scoppiò sulle pagine della rivista Famiglia Cristiana. Alla fine degli anni Ottanta, in un’intervista per il programma di Raiuno “La notte della Repubblica”, Rossellini affermò che quella mattina si stesse semplicemente concedendo una riflessione politica e un’ipotesi, del tutto giustificata dal clima di tensione imperante nella società italiana. Inoltre, aggiunse che le trasmissioni di numerose emittenti del movimento antagonista romano erano ancora registrate dal Ministero dell’Interno nel 1978. Purtroppo, quando le bobine del 16 marzo furono presentate in tribunale, si dimostrarono particolarmente lacunose nei minuti precedenti l’agguato: seconda cosa strana.

Presenze sospette in via Fani

Poco dopo l’agguato, via Fani divenne chiaramente oggetto della curiosità di un gran numero di passanti e la scena del crimine si ritrovò inondata di gente. Ma, prima che tutto ciò avvenisse, ci furono alcune presenze sospette che non passarono inosservate. Prima fra tutte, una moto Honda, vista da quattro testimoni differenti: l’ingegner Alessandro Marini – che si trovava all’altezza dell’incrocio sul proprio ciclomotore – affermò di essere stato intimidito dai due giovani a bordo con una scarica di proiettili. Sull’asfalto non vennero mai trovati bossoli differenti da quelli delle armi usate dai brigatisti, i quali ci tennero anche a precisare che nessun membro del commando usasse una motocicletta quel giorno. Chi erano allora questi due oscuri personaggi? Forse membri della malavita? L’ipotesi non sembra più così suggestiva, se è ormai noto che sul luogo dell’attentato, quella mattina, si trovassero anche due importanti mafiosi della ‘Ndrangheta calabrese: Giustino “Lo scotennato” de Vuono e Antonio Nirta. Una presenza provata dalle foto (ritrovate nel 2016 e pubblicate dal Messaggero) di Gennaro Gualerzi, proprietario di un’ottica su Via Stresa. Uno dei tanti rullini scomparsi nei cassetti delle procure…

Le borse di Moro

Presenze, ma anche assenze sospette. Come quella delle borse del Presidente della Democrazia Cristiana. Secondo la moglie Eleonora e i suoi più intimi collaboratori, Aldo Moro era solito portare con sé cinque borse: una prima contenente documenti di grande importanza, una seconda con i suoi medicinali e altri oggetti personali, le altre tre per bozze di lavoro, libri, giornali e tesi di laurea dei suoi studenti. Soltanto due di quest’ultime vennero trovate quella mattina, tra i sedili della Fiat 130. La terza venne rinvenuta giorni dopo nel portabagagli della stessa auto, in una successiva perquisizione. Semplice superficialità o iniziale contaminazione della scena del crimine? Le due borse più “sensibili”, invece, furono portate via dai brigatisti insieme al proprietario: qui si può essere meno complottisti e supporre che siano state scelte semplicemente perché Aldo Moro le stringeva a sè più delle altre. Ma che documenti contenevano? Le Brigate Rosse ebbero la possibilità di condividerli con qualcuno? L’unica cosa di cui parlarono fu un progetto di unificazione delle forze dell’ordine, ma il sospetto che ci fosse altro è difficile da cancellare. Com’è difficile da cancellare anche il ricordo di un grande politico che quarantacinque anni fa perse la libertà e poi la vita per portare a termine la missione alla quale l’aveva consacrata: il bene dello Stato italiano.

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