Castelli e spiriti femminili: tra memoria e oblio a San Secondo
«Deh, quando tu sarai tornato al mondo, // e riposato de la lunga via», […]…
«Deh, quando tu sarai tornato al mondo, // e riposato de la lunga via», […] // «ricorditi di me, che son la Pia: // Siena mi fé, disfecemi Maremma: // salsi colui che ‘nnanellata pria // disposando m’avea con la sua gemma».
Se un albero cade in un bosco anche se non c’è nessuno nei dintorni, fa rumore? Se di una persona morta nessuno rammenta il nome, si può dire che sia realmente esistita? È facile liquidare quesiti simili come triviali o fintamente cervellotici. Eppure, il dilemma ad essi sotteso va ad intaccare le fondamenta stesse di una cosiddetta ‘esistenza’, facendo vibrare le corde in bilico tra realtà e percezione, tra oggettività materiale ed esperienza soggettiva. Benché possa essere spontaneo rispondere positivamente a tali interrogativi, non si può negare che, dalla letteratura alla storia, un peso considerevole è attribuito all’idea di lasciare un’impronta di sé, un segno indelebile del proprio passaggio, che rinvii la nostra mortalità tramandando ai posteri le nostre gesta o il nostro cognome. Queste sono le domande che l’arte e le leggende della Rocca dei Rossi di San Secondo pongono ai propri visitatori, ai quali ci uniremo per il quarto articolo della rubrica sui Castelli del Ducato e gli spiriti femminili che vi risiedono.
Se dovessimo indicare la fortezza che più di tutte è legata alla nobile casata parmense dei Rossi, verosimilmente nessuna può contendere il primato della Rocca di San Secondo. Essa venne edificata su di un dosso intorno al 1413, a difesa del borgo fortificato, sul quale i membri della potente famiglia vantavano diritti sin dal XII secolo, esercitandone la signoria come conti dal 1365. Il suo fondatore fu Pier Maria Rossi I, padre dell’omonimo figlio, il Magnifico condottiero che già abbiamo incontrato nel nostro viaggio a Torrechiara. Fu tuttavia nel Cinquecento che il castello venne trasfigurato da fortezza difensiva in fastosa residenza, mentre il casato raggiungeva l’acme del proprio prestigio. Risalgono alla fine del XVI secolo, infatti, la costruzione e decorazione della Sala delle Gesta Rossiane, che celebra le più importanti vicende familiari dal 1199 fino al 1542.
Al di là di ciò, la leggenda narra che sulla dimora dell’illustre stirpe aleggi tuttora un fantasma senza nome. Si dice, infatti, che lo spirito di una giovane quanto sconosciuta fanciulla, trucidata a sangue freddo non ancora ventenne, faccia talvolta avvertire la propria inquietante presenza nelle sale del castello, ai rintocchi della mezzanotte. Uno spirito morto di morte violenta, dunque, incapace di trovare la pace del sonno eterno, di cui sappiamo poco o nulla ma che anela di essere ricordato. Più di una somiglianza, quindi, con una delle ombre più enigmatiche del Purgatorio dantesco, ovvero quella di Pia de’ Tolomei, ultimo incontro del poeta nel balzo dei morti per forza, le cui anime cantano il Miserere nell’attesa di essere ammesse alle cornici del secondo regno ultraterreno. Anche loro sono ossessionate dall’essere ricordate dai vivi, affinché le preghiere di questi ultimi accorcino la loro permanenza nell’Antipurgatorio, permettendo loro di varcare la soglia di diamante oltre la quale espiare le proprie colpe e raggiungere, un giorno, il Paradiso.
Storia, leggenda, oblio
Tra le anime che assillano Dante di rievocare il loro nome una volta tornato all’esistenza terrena, quella di Pia si ritaglia un posto d’onore proprio per la dolcezza e la premura con cui espone la propria richiesta al poeta. E così, con il suo entrare in punta di piedi, uno dei personaggi più misteriosi e parchi nel raccontare di sé diventa di colpo una delle figure più memorabili della seconda Cantica, su cui critici e storici ancora si arrovellano. Sono gli antichi commentatori ad avanzare l’ipotesi che si tratti di una donna senese della famiglia dei Tolomei, uccisa violentemente dal marito come punizione per presunta infedeltà, o per la volontà di lui di passare a seconde nozze. Di tutto il resto si sa poco o nulla, ma ciò paradossalmente non fa che rafforzare l’unicità di uno dei tanti spiriti penitenti che fondano sul ricordo del proprio passato le preghiere e le speranze per un futuro di beatitudine.
D’altro canto, alla sintesi lapidaria di Pia e all’afasia dell’anonimo spirito della Rocca di San Secondo fa da contraltare il narrare prolisso e variopinto che rende le sale del castello un gioiello dell’arte pittorica. Alle sue decorazioni prestano il proprio pennello allievi di Raffaello e Giulio Romano, i manieristi Samacchini, Procaccini e il “Bertoja”, nonché il pittore cremonese Cesare Baglione. Il piano nobile della dimora, dunque, conduce il visitatore attraverso un imponente ciclo pittorico di modello profano, ove la storia del casato s’intreccia a favole e miti del mondo antico. Così, la Galleria di Esopo si presenta come un ampio corridoio alla scoperta dei racconti dell’antico scrittore greco. La camera nuziale, d’altra parte, è nota come Sala dell’Asino d’Oro, per via del soffitto impreziosito da diciassette quadri tratti dalle Metamorfosi di Apuleio, unici per l’attenzione quasi esclusiva alla vicenda di Lucio tramutato in asino, senza alcun riferimento alla favola di Amore e Psiche. O ancora, la Sala dei Cesari, studio del marchese con raffinate decorazioni in stucco ritraenti imperatori romani, matrone, damigelle e cavalieri quali allegoria del potere imperiale.
La vera pièce de résistance, tuttavia, rimane la già citata Sala delle Gesta Rossiane, l’ambiente più imponente e maestoso del maniero di San Secondo, commissionato da Troilo II alle principali maestranze dell’epoca per scolpire il fasto della propria casata sulla lapide del tempo – al cui scorrere rimandano le quattro cariatidi a sostegno della volta, personificazione delle quattro stagioni. Ben 1200 metri quadrati di affresco, in cui grottesche e allegorie si rincorrono attraverso tredici quadri-arazzo gargantueschi con raffigurati altrettanti episodi cruciali dell’epopea dei Rossi. E infine, un camino monumentale in marmo rosso e bianco, a suggellare per sempre il legame indissolubile tra San Secondo e la nobile famiglia, riproponendone lo stemma con il tradizionale leone rossiano rampante.
Eppure, la Rocca di San Secondo ospita anche un altro camino nella Sala di Latona, dominata al centro del soffitto dall’immagine della dea greca mentre riposa con i figli Diana e Apollo, dopo essere sfuggita alla gelosia di Era. Narra la leggenda che proprio su questo camino sia ancora visibile una macchia di sangue lasciata dallo spirito del castello quando venne assassinato. Il segno impercettibile di una vita umana dimenticata, a fianco di una stanza a celebrazione dell’imperitura memoria di una grande famiglia. A ben vedere, la storia umana è drasticamente più popolata da Pie de’ Tolomei o addirittura individui senza volto e senza nome piuttosto che da illustri casate come quella dei Rossi, così come sulla terra vi sono molte più capanne di fango e argilla piuttosto che salde fortezze in pietra. Ciononostante, nelle parole di Ugo Foscolo, infine tutte “l’orme […] vanno al nulla eterno”, e persino la vicenda più tersa è destinata a perdersi nelle nebbie della leggenda, e poi nella quiete buia dell’oblio. E quand’anche le rovine dell’ultimo castello cadranno in un bosco senza più alcuno nei dintorni, verrebbe da chiedersi, faranno rumore?