Oggi 19 marzo si festeggiano tutti i papà. Una ricorrenza presente in quasi tutto il mondo, ma che in Italia è fissata nel giorno di San Giuseppe perché riconosciuto, il santo, dalla Chiesta cattolica, come figura per antonomasia della paternità. Al di là del suo significato religioso, la festa del papà è diventata una festività culturale, in cui si moltiplicano le iniziative di anno in anno per festeggiare i babbi di tutto lo stivale. Spesso la festa diventa però occasione di riflessione: che cosa significa essere padre? Che cosa si aspetta la società da un padre? Come viene raccontata dai media la paternità?
È noto ormai a chiunque che la figura del padre si porta con sé certe aspettative, così come capita alla madre. Tra queste, quella di prendersi cura della propria prole presenta ancora qualche problematica. Ovvero: tra un padre e una madre, culturalmente, il lavoro di cura viene attribuito (e di fatto svolto maggiormente) dalla donna, mentre il padre viene spesso raffigurato e raccontato come colui che ha il compito di far divertire, di far svagare il figlio o la figlia e di colui che prende le decisioni importanti, anche dal punto di vista economico, all’interno del nucleo familiare, secondo un retaggio ancora diffuso che vede nel “padre di famiglia” sostanzialmente il “capo” dell’insieme di persone che vivono sotto lo stesso tetto.
Rispetto a questo sistema culturale, come si pone la legge? Il congedo di paternità, cioè il permesso di astenersi dal lavoro (essendo retribuiti) quando nasce un figlio, è fissato in Italia a 10 giorni. Dopo il parto quindi, il padre potrà stare vicino al neonato, se lo vuole, poco più di una settimana, per poi tornare a lavoro mentre la madre si prende cura del piccolo. Per entrare nel dettaglio e per farci spiegare le peculiarità del nostro sistema legislativo, abbiamo intervistato la professoressa Susanna Palladini, insegnante di Diritto del lavoro all’Università di Parma, che oltre a raccontare gli step che hanno permesso la realizzazione della legge in Italia, offre un confronto con gli altri sistemi normativi europei e commenta l’arretratezza culturale italiana rispetto all’equiparazione dei ruoli in famiglia.
Le principali tappe della legge sul congedo di paternità in Italia
La valorizzazione, da parte del legislatore, non solo della tutela psico-fisica del bambino, ma anche della relazione affettiva tra questo e i genitori, ha preso le mosse dalla tutela della maternità, con la storica legge n. 1204/1971: da lì, la strada verso un progressivo rafforzamento della genitorialità si è avviato, per quanto lentamente e faticosamente, fino a raggiungere, negli anni più recenti, la ricomprensione anche del padre nella rete protettiva del legislatore in riferimento ai rapporti famigliari.
Oggi, continua la professoressa Palladini, le “misure di tutela della maternità delle lavoratrici sono estese anche al padre, che può usufruirne in alternativa alla madre, ma, in determinate circostanze, anche in proprio“. È a quest’ultima categoria che appartiene il congedo di paternità, “una new entry, potremmo dire“, tra le previsioni che hanno accordato al padre riposi (o permessi) giornalieri in alternativa alla madre, così come, sempre in alternativa all’altro genitore, i congedi (o permessi) per la malattia del figlio (artt. 39-41 TU delle Disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e paternità, d.lgs. n. 151/2001).
In particolare, il congedo di paternità è stato introdotto in via sperimentale per gli anni 2013-2015 con la legge Fornero, esteso progressivamente da 5 a 10 giorni (20 in caso di parto plurimo), da usufruire nel periodo da 2 mesi prima a 5 dopo il parto, ovvero, in caso di adozione o affidamento, dall’effettivo ingresso in famiglia del minore in caso di adozione nazionale, o dall’ingresso del minore in Italia in caso di adozione internazionale (la disciplina del congedo di paternità è oggi contenuta nel d.lgs. n. 105/2022, di attuazione della Direttiva UE 2019/1158).
Spiega Susanna Palladini: “Attenzione, però, perché la definizione di congedo “obbligatorio” potrebbe parzialmente trarre in inganno: si tratta di un diritto del lavoratore padre, che “obbliga” il datore a concederlo, rimanendo però il lavoratore nella piena facoltà di richiederlo o meno: non vi è, dunque, un reale obbligo ad astenersi dal lavoro (subito prima e dopo il parto), come invece previsto per la lavoratrice madre“.
Congedo di paternità: misura adeguata?
Ma la quantità di 10 giorni è consona, oppure è una misura solamente minima che in realtà non aiuta alla condivisione del lavoro di cura dei figli in casa? Secondo la professoressa Palladini la misura temporale dei 10 giorni è inadeguata. Tuttavia, continua l’esperta, “non bisogna dimenticare che in materia di Diritto del lavoro il legislatore deve sempre operare un non facile compromesso tra le ragioni dell’impresa, che deve farsi carico dell’assenza del dipendente, e quelle di tutela della legittima aspirazione del lavoratore di avere riconosciuti spazi garantiti, sotto il profilo retributivo e di conservazione del posto di lavoro, per poter partecipare, insieme alla madre, all’accoglienza del figlio, e alla formazione di una relazione famigliare solida“.
Oltre a questo, resta da considerare il fattore pienamente culturale: “Dovrebbe essere promosso un maggiore equilibrio nella distribuzione dei ruoli di cura, tradizionalmente addossati quasi esclusivamente alla lavoratrice donne“, che deve portare, secondo la prof. Palladini a non considerare i 10 giorni previsti come una “quantità” di tempo adeguata o meno, ma un segnale: la genitorialità è doppia, del padre e della madre, (al di là degli aspetti fisiologici legati alla gestazione e al parto).
Se però confrontiamo la misura italiana con l’omologa degli altri paesi europei, il nostro paese risulta essere, per molti aspetti, “fanalino di coda”: “Sicuramente appaiono più virtuosi quei paesi (come la Spagna o Germania) che prevedono più settimane di congedo, mantenendo una più alta percentuale di copertura retributiva“, commenta la professoressa Palladini. Tuttavia occorre andare a fondo: “in un campo come questo, a dare la misura della bontà dello schema normativo non sono infatti i dati “tecnici” sulle scelte operate dal legislatore, ma il tasso di effettività delle stesse. Solo i paesi scandinavi, (da quanto appreso dall’Osservatorio CPI dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, da Linc Magazine e dai dati INPS), da sempre all’avanguardia nella ricerca e nella promozione di maggior equilibrio tra tempi di vita e tempi di lavoro, possono vantare percentuali di ricorso ai congedi di paternità e parentali da parte del padre che toccano in alcuni casi (Norvegia) quasi il 90%“.
In questi paesi non solo ci sono più settimane riconosciute al padre, ma anche una diversa cultura, diffusasi nel tempo e consolidatasi nelle generazioni, di una reale uguaglianza di genere nel mondo del lavoro: “È forse su quest’ultimo fronte, che si compone di molte sfaccettature, oltre agli aspetti strettamente legati alla maternità/paternità, che il nostro paese mostra maggiori criticità, sulle quali il legislatore dovrebbe intervenire, per scongiurare il fatto che trattamenti retributivi generalmente più bassi, e chances di carriera fortemente condizionate proprio dalla maternità, costringano le donne ad un impari distribuzione dei carichi famigliari“, commenta la professoressa.
La parità genitoriale è lontana: “C’è ancora una forte resistenza culturale”
Il tema della parità genitoriale ha, come visto, attirato l’attenzione del legislatore, sia europeo che italiano, spiega Palladini, ma “ciò che frena particolarmente nel nostro paese il raggiungimento di una reale equiparazione di ruoli è una certa resistenza culturale a considerare il padre con la stessa centralità, nell’assistenza famigliare, che ha la madre“. Ciò si traduce in prassi, praticate anche e soprattutto nel mondo del lavoro, che di fatto “riducono lo sforzo pur dimostrato dal legislatore, già a partire dal primo intervento sul congedo obbligatorio di paternità del 2012, di «sostenere la genitorialità, promuovendo una cultura di maggiore condivisione dei compiti di cura dei figli all’interno della coppia e per favorire la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro»“.
La legge potrebbe quindi essere migliorata? Come risponde la professoressa Palladini, “è chiaro che la legge può sempre migliorare i propri contenuti, ad esempio progressivamente aumentando le giornate (o le settimane) di congedo per i padri; così come provvedere ad una migliore copertura retributiva, come succede in altri ordinamenti europei, per incentivare gli uomini, che spesso sono destinatari del trattamento retributivo più alto nella famiglia, a non rinunciare all’idea del congedo sapendo che, così facendo, non vedranno diminuire il proprio reddito“.
Ma non finisce qui. La misura del congedo di paternità è inserita all’interno di un insieme di norme a sostegno delle famiglie, che ancora possono e dovrebbero essere incentivate. E non solo le famiglie di coppie etero, ma anche per quanto riguarda le famiglie omogenitoriali, per le quali, come sappiamo, l’Italia pone soltanto misere tutele (ne abbiamo parlato qui): basti guardare alla recente misura governativa sul riconoscimento dei figli di coppie omosessuali, che ha interrotto le trascrizioni dei certificati di nascita esteri dei figli nati da coppie omogenitoriali. Conclude la professoressa: “Bisognerebbe investire sulle strutture, asili nido, servizi educativi, e ancora si potrebbe estendere il tempo a scuola, per aiutare nella gestione di figli piccoli entrambi i genitori e contribuire così ad una occupazione realmente paritaria, che non condizioni né padri, né madri nella scelta tra lavoro e famiglia“.