La guerra tra Israele e Palestina è al centro delle cronache internazionali di queste ultime settimane. Un conflitto che cela radici storico-culturali profonde e che, seppur con periodi di tregua, non si è mai assopito del tutto: una sorta di vulcano sempre pronto ad esplodere. E così è stato lo scorso 7 ottobre 2023 quando Hamas ha annunciato l’inizio dell’operazione Alluvione Al-Aqsa con un massiccio attacco di oltre 5000 razzi verso Israele. Contemporaneamente al lancio di missili, le milizie palestinesi hanno attaccato le postazioni militari israeliane a guardia del confine; mentre l’azione più ‘eclatante’ di cui tutti i media hanno dato notizia è stato l’arrivo di combattenti palestinesi ad un festival musicale a Re’im, dove sono state uccise più di 260 persone e i sopravvissuti sono stati portati a Gaza come ostaggi. L’inizio di un’escalation militare che nei giorni scorsi ha visto anche il bombardamento di ospedali e l’uccisione di civili.

Abbiamo cercato di analizzare le cause di questa guerra insieme al dottor Fabrizio Solieri, assegnista di ricerca di Storia Contemporanea presso il dipartimento DUSIC (Discipline Umanistiche, Sociali e delle Imprese Culturali) dell’Università di Parma.

La guerra arabo-israeliana ha radici storiche e culturali profonde, ce le può riassumere? 

Già alla fine dell’Ottocento il movimento sionista, nato per iniziativa del giornalista Theodor Herzl, aveva cominciato a favorire l’emigrazione in Palestina di gruppi di ebrei provenienti soprattutto dall’Impero zarista e dall’Impero Austro-ungarico. Dopo la Seconda Guerra Mondiale era divenuta più forte la spinta per la creazione di un vero e proprio stato ebraico in quei territori sottoposti al controllo del Regno Unito il cui governo, incapace di gestire la situazione, nel maggio 1947 aveva lasciato all’Onu il controllo sulla regione. Il 14 maggio 1948 era quindi stata ufficialmente proclamata la nascita di Israele che però era stato immediatamente attaccato dagli Stati circostanti, riuniti nella Lega Araba. La vittoria riportata dal neonato Stato ebraico gli aveva permesso di occupare anche molti territori teoricamente destinati alla creazione di una analoga entità statale palestinese mentre altri erano stati assorbiti dai paesi vicini come la Giordania. A partire da quel momento e fino praticamente ai nostri giorni l’area ha vissuto una situazione di profonda instabilità, con due guerre vere e proprie (Guerra dei Sei giorni, 1967; Guerra dello Yom Kippur, 1973), innumerevoli scontri ‘minori’ e il coinvolgimento di ulteriori Paesi (per esempio il Libano) senza contare, tra le altre cose, le azioni terroristiche palestinesi, le occupazioni in Cisgiordania da parte dei coloni israeliani e le palesi violazioni dei diritti umani perpetrate dall’esercito di Tel Aviv.

Il riaccendersi del conflitto, oggi, è dettato anche da motivi economici? 

Non esattamente. Prevalgono interessi geopolitici, anche interni al mondo arabo, quali le tensioni tra l’Iran sciita e l’Arabia saudita sunnita che proprio negli ultimi mesi stava arrivando ad un accordo con Israele. Poi, certamente, il conflitto in corso ha immediate ripercussioni sul prezzo del petrolio perché coinvolge l’area in cui sono presenti alcuni dei più grandi produttori.

L’organizzazione non governativa Human rights watch ha definito la Striscia di Gaza “una prigione a cielo aperto”. Che cosa si intende e perché è così importante in questo conflitto?

La Striscia di Gaza è una piccola porzione di territorio costiero, collocato nel sud di Israele, al confine con l’Egitto. In soli 365 km2 sono confinati più di due milioni di palestinesi, letteralmente reclusi in quello spazio, visto che tutto il perimetro della Striscia è circondato da barriere e da un attento apparato di sorveglianza, pensato per impedire ogni possibile penetrazione palestinese in territorio israeliano. I fatti del 7 ottobre hanno dimostrato il fallimento di questo sistema, non soltanto dal punto di vista umano e politico, ma anche operativo e militare.

Gli accordi di Oslo, trent’anni fa, sembravano aver segnato una tregua. Eppure, l’opinione pubblica è divisa: c’è chi afferma che siano stati una “truffa” e chi li ha ritenuti “vincenti”. Cosa è successo realmente e cosa è cambiato oggi rispetto al 1993? 

Negli accordi di Oslo il governo israeliano guidato da Yizhak Rabin riconosceva l’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) di Yasser Arafat come interlocutore ufficiale e concedeva una forma di autogoverno all’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) su alcuni territori. Garantiva inoltre un progressivo ritiro dell’esercito sia da Gaza (dove gli israeliani hanno avuto coloni fino al 2005) sia da altre zone. L’OLP riconosceva invece il diritto all’esistenza di Israele e si impegnava a cessare l’uso della violenza per rivendicare i diritti del proprio popolo. Gli accordi sembravano un passo importante per giungere alla soluzione dei due Stati.

Si trattava però di un equilibrio fragile legato anche al destino dei promotori: Rabin venne ucciso nel 1995 da un giovane esponente dell’estrema destra religiosa israeliana mentre l’ANP di Arafat (scomparso nel 2004) perdeva poco alla volta la sua capacità di controllo e direzione del popolo palestinese anche a causa di un alto livello di corruzione, favorendo così l’ascesa di Hamas.

Che ripercussioni può avere il conflitto sull’Europa? Come si posiziona l’Occidente rispetto alla guerra? 

I governi europei e occidentali si sono schierati compattamente a fianco di Israele dopo l’attacco del 7 ottobre, seppur con sfumature diverse. Ciò non toglie che agli occhi di Unione Europea e Stati Uniti la politica dei governi di Netanyahu, in particolare dell’ultimo, nei confronti della questione palestinese sia apparsa provocatoria e controproducente.

Occorre però ricordare che l’obiettivo dichiarato di Hamas è la cancellazione di Israele come Stato, non la semplice rivendicazione del diritto dei palestinesi ad avere una propria entità territoriale indipendente e autonoma. 

Con i presupposti storici e culturali che esistono tra Israele e Palestina, potrà mai veramente esserci una pace definitiva? 

Se parliamo del medio-lungo periodo, la storia è piena di conflitti ritenuti irrisolvibili che invece sono stati superati dagli eventi e poi completamente dimenticati. Nel breve periodo ciò che preoccupa è la tendenza delle rispettive classi dirigenti ad inasprire le contrapposizioni invece che a cercare un accordo. Per quanto riguarda Israele, Netanyahu ha cavalcato in modo incosciente e populista una politica di forza di cui è rimasto prigioniero nel momento in cui ha dovuto formare un governo con i partiti estremisti della destra religiosa. Da parte palestinese, l’ANP non ha più voce in capitolo e non sembra possibile trovare un appiglio per eventuali trattative con Hamas, che tra l’altro è finanziata da potenze che non hanno alcun interesse ad una pacificazione dell’area. Tuttavia, a mio modo di vedere, la soluzione dei due Stati è l’unica possibile: occorrono però nuovi protagonisti.

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