È la mattina del 3 ottobre 1943. La famiglia Scalise è appena arrivata in Svizzera per un periodo di vacanza. Sono in tre: Rolando, la moglie incinta Enrica e la sorella di Enrica, Luciana. Vengono da un piccolo paesino in provincia di Palermo, Forza d’Agrò. Alle spalle hanno un lungo viaggio, ma ora è il momento di rilassarsi. La Svizzera è neutrale, qui non si combatte e la Sicilia è stata liberata da mesi. Questo, per lo meno, era ciò che appariva. Quei nomi, quel cognome, era ciò che riportavano le loro carte d’identità, dove sul timbro che reggeva le fototessere era scritto “For”, soltanto le prime tre lettere di “Forza d’Agrò”.
In realtà, niente di tutto ciò era vero. Gli Scalise non esistevano. Rolando, Enrica e Luciana non erano nati a Palermo. In Svizzera non erano andati per una vacanza. In Svizzera erano andati per salvarsi. I tre sono infatti i Vigevani, i componenti di una famiglia ebrea di Parma, scappata dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 dalle persecuzioni razziali, dal rastrellamento casa per casa che i nazisti iniziarono sul territorio italiano. Rolando, Enrica e Luciana erano riusciti a procurarsi dei documenti falsi grazie a un amico che aveva trafugato alcune carte d’identità in bianco all’ufficio dell’anagrafe. Quel “For” sulla carta d’identità celava in realtà il comune di Fornovo, una maschera ingegnosa che l’amico di lunga data aveva trovato per metterli in salvo.
Quell’amico era Pellegrino Riccardi, un uomo buono, onesto – così lo racconta chi lo conosceva – che faceva il magistrato. Negli ultimi anni della Seconda guerra mondiale era pretore a Fornovo, e la questura si trovava nello stesso palazzo dell’anagrafe. Per questo Pellegrino riuscì a trafugare alcuni documenti e a farli falsificare. La sua storia è rimasta invisibile per molti anni, tra le mura di casa e qualche racconto non molto preciso ai figli e ai nipoti. Nel 1988 poi è arrivato un riconoscimento ufficiale: l’Istituto Yad Vashem di Gerusalemme gli ha conferito il diploma d’onore e il diritto di piantare un albero con il proprio nome nel Giardino dei Giusti. Pellegrino era nato nel 1905 e a novant’anni, nel 1995, se n’è andato. È stato poi suo nipote, Carlo Bocchialini, giornalista con un passato da corrispondente da Parigi, a mettere ordine in quella storia che, secondo Pellegrino, “non interessava a nessuno”.
“Le pagine che seguono nascono da un rimpianto: che non siano state scritte dal diretto interessato. Più volte chiesi a mio nonno – come fecero altri membri della famiglia – di mettere nero su bianco questa storia e questi ricordi. […] Ma non ci fu verso”. Inizia così “Pellegrino Riccardi. Un giusto tra le nazioni”, il libro che Bocchialini ha pubblicato nel 2013 con Atelier 65 Editore. Il lavoro di ricostruzione è avvenuto attraverso i racconti dei protagonisti stessi: di suo nonno, delle interviste uscite dopo il 1988 e dal diario che Rolando Vigevani tenne a partire dall’8 settembre 1943. “Devo ringraziare moltissimo Margherita Rabaglia, che allora era la preside dell’Itsos Gadda di Fornovo e Langhirano: fu lei a stimolarmi nello scrivere questa storia”, spiega Carlo Bocchialini.
L’amicizia, il caos dopo l’armistizio e la nuova identità
Pellegrino e Rolando avevano studiato insieme giurisprudenza, e anche se i loro percorsi si erano separati – magistrato il primo e avvocato il secondo – erano rimasti buoni amici. Già prima di settembre, Pellegrino aveva avvertito i Vigevani – Rolando, Enrica e il loro piccolo primogenito Tullo – riguardo un possibile inasprimento delle persecuzioni razziste. Poi con l’armistizio tutto è precipitato. Già l’8 settembre 1943 una truppa di soldati tedeschi bussò alla porta della casa dei Vigevani a Martorano. C’era solo Rolando, il figlio Tullio e la bambinaia Tina Baldi, un’altra eroina di questa lunga vicenda, che ebbe la prontezza di nascondere la pistola che c’era in casa nello sterco della stalla. I tedeschi se ne andarono solo con una forma di parmigiano sequestrata, ma dissero che sarebbero tornati poco dopo.
Carlo Bocchialini racconta: “La signora Vigevani, in una delle chiacchierate che facemmo anni dopo, mi disse che non sapeva se i soldati l’avessero detto per farli scappare o perché erano talmente convinti del loro potere che pensavano che li avrebbero aspettati”. Rolando iniziò così a nascondersi nella provincia di Parma: erano una famiglia benestante, con molti casolari. Anche Pellegrino aveva più possedimenti nelle terre vicino a Fornovo e per un tempo fu a Colorno in un podere: proprio qui riuscì a capire dove si stessero nascondendo i Vigevani e riuscì a farli arrivare a Ramiola in una clinica dove i proprietari, i fratelli Melocchi, ospitavano clandestinamente anche famiglie ebree.
In quei giorni in Italia imperversava il caos. C’erano molte famiglie ebree che si nascondevano e cercavano di sfuggire alle persecuzioni: Enrica Vigevani racconterà che i soldati arrivarono con un carrarmato fin sotto la loro casa in centro a Parma, per esempio. Chiunque si metteva in gioco per proteggere gli ebrei rischiava moltissimo. E gli ebrei che cercavano di scappare non avevano idea di che cosa sarebbe accaduto dopo la cattura. In questo trambusto, il piccolo Tullio, figlio di Rolando ed Enrica, era rimasto con la balia Tina, che lo portò in bicicletta, in un territorio pattugliato e rischioso, da Martorano, dove si trovava la casa dei Vigevani, fino a Cattabiano, casa di Pellegrino Riccardi. Il bambino rimase lì per qualche tempo, e fu fatto passare come figlio di Pellegrino: “La gente però iniziava a insospettirsi – racconta Bocchialini – tutti si conoscevano in paese e non era più sicuro tenere il bambino a casa dei miei nonni”. Perciò, si decise di portare anche il bambino nella clinica a Ramiola.
La situazione era di stallo. Pellegrino aveva messo in sicurezza, per un po’ di tempo, l’amico e la famiglia. Ma occorreva fare un passo ulteriore: procurare dei nuovi documenti ai Vigevani e farli fuggire in un luogo sicuro. La fortuna capitò un giorno di settembre mentre Pellegrino passeggiava sul ponte di Fornovo sopra il fiume Taro, quando incontrò il professor Candian, un suo vecchio professore dell’Università ora insegnante a Milano. Candian aveva dei contatti nella città lombarda e disse al vecchio studente che c’era, attraverso di lui, la possibilità di far scappare qualcuno in Svizzera. Fu così che Candian inziò a costruire la rete di contatti che avrebbero accompagnato i Vigevani in Svizzera. E fu così che Pellegrino Riccardi trafugò le carte bianche e fece diventare i Vigevani gli Scalise.
La fuga verso la Svizzera
Partirono in tre, senza il piccolo Tullo, troppo rischioso da portare. Così i genitori si separarono dal figlio, con in cuore la consapevolezza che la stessa rete che stava mettendo in salvo loro avrebbe portato in salvo anche il figlio. “Mio nonno”, racconta Bocchialini, “decise di strappare metà di un foglio da 10 lire. Metà la donò a Rolando. L’altra metà l’avrebbe data a chi avrebbe trasportato il piccolo Tullo. Solo così, facendo combaciare le due metà della banconota, la consegna poteva avvenire tra le persone giuste”.
I tre in viaggio passarono la Bassa parmense, Fidenza, Fiorenzuola, Piacenza, poi il grande Po, in magra estiva ancora. Quindi la Lombardia, fino a Lodi. Alle porte di Milano un posto di blocco tedesco li aveva fermati: lettura sbrigativa ai documenti, controllo più minuzioso della vettura e infine la requisizione, soltanto, della ruota di scorta. Arrivati all’Università di Milano, i Vigevani vennero accolti da una professoressa di diritto, che li invitò a ripartire l’indomani mattina. Quella notte, Rolando, Enrica e Luciana la passeranno tra le panche di legno di un’aula dell’Università di Milano: il giorno successivo la meta sarà Besano, un paesino che oggi conta poco più di due mila abitanti in provincia di Varese, a pochi chilometri dal confine.
“Auschwitz, Mauthausen, Buchenwald sono nomi che […] non significano nulla: un pizzico di sfortuna, un posto di blocco zelante, una guardia di frontiera nel posto sbagliato potrebbero cambiare in modo radicale la destinazione di quel viaggio”, scrive Carlo Bocchialini nel libro. C’era quindi, nelle menti di chi viaggiava clandestinamente, la paura di venire scoperti. Ma non sapevano in sostanza che si stava adoperando uno sistematico sterminio della loro comunità a chilometri e chilometri di distanza. Il viaggio dei tre “Scalise” per fortuna finì nel migliore dei modi: in una notte con condizioni meteo favorevoli partirono e attraverso i contrabbandieri raggiunsero la collina che separava l’Italia dalla Svizzera. Arrivarono a destinazione la mattina del 3 ottobre, pochi minuti dopo le 8. Finalmente in salvo, dopo la montagna russa di rischi e pericoli che avevano corso nei giorni precedenti.
L’esercizio della memoria: “Occorre attualizzare gli eventi passati”
“Per quello che ho fatto mi sta un po’ larga”. Così Pellegrino Riccardi aveva commentato il conferimento della medaglia che lo inseriva tra i Giusti delle nazioni. Non c’era piena consapevolezza, c’era piuttosto un continuo sminuirsi. “Dopo i Vigevani aiutò altre famiglie ad arrivare in Svizzera, più o meno con gli stessi metodi. Però non raccontava mai molti dettagli di quello che aveva fatto”: per questo motivo la storia scritta da Carlo Bocchialini diventa una preziosa testimonianza, da rileggere e da portare come esempio fino ad oggi.
“Occorre attualizzare queste memorie;”, spiega l’autore, “spesso vado a parlare nelle scuole e cerco di non presentare questa storia come se fosse accaduta ai tempi degli antichi romani. Faccio esempi attuali. Scegliere da che parte stare è una cosa che si può fare tutti i giorni, di fronte a qualsiasi piccola ingiustizia”. Vedendo oggi Liliana Segre, sopravvissuta all’Olocausto e senatrice a vita della Repubblica italiana, vivere sotto scorta, ormai da quasi quattro anni, porta però a porci molte domande.
Nei pensieri di Carlo Bocchialini si sta assistendo a un progressivo imbarbarimento culturale, una formula forte, che però indica la perdita del riconoscimento del valore delle cose importanti. “È come se si fosse perso il limite: Segre ha fatto scrivere sul binario 21 della stazione di Milano la parola “indifferenza”, ma è proprio questa la cosa che sta dilagando”. C’è inoltre un fattore “strutturale”: “A scuola talvolta l’insegnamento della storia si ferma agli anni Quaranta, si sfiora la Seconda guerra mondiale e niente più. Gli insegnanti sono schiacciati dalla buracrazia da una parte, e dalle pressioni dei genitori degli alunni dall’altra. Si dovrebbe ripensare perlomeno il programma scolastico della storia: forse fare meno guerre puniche e più la storia del Novecento”.
Solo in questo modo, infatti, ci sarà modo di capire a che cosa certi eventi possono servire. “Per passare il confine e fuggire in Svizzera, gli ebrei in fuga dovevano pagare una grande somma di denaro ai contrabbandieri”, spiega Bocchialini. I Vigevani, che avevano la fortuna di essere molto benestanti, pagarono infatti più di 7000 lire, e allora, per rendersi conto della quantità di denaro, un manovale prendeva 4,06 lire all’ora. La stessa cosa la vediamo con i migranti oggi, perché “la storia si ripete” e studiarla aiuta a capire il presente.
Rolando Vigevani e Pellegrino Riccardi sono rimasti in contatto anche durante i periodi in cui erano lontani. I Vigevani dopo aver vissuto per un po’ di tempo in Svizzera, tornarono in Italia e negli anni Cinquanta si trasferirono in Brasile, perché avevano timore che le persecuzioni potessero acuirsi. E oggi, a raccontare la loro storia, sono i nipoti. Coloro che, insieme alle pagine dei libri di storia, tramandano l’esercizio della memoria di giorno in giorno.