Castelli e spiriti femminili: il mistero della morte a Fontanellato
Come il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino ancora in boccia, al…
Come il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino ancora in boccia, al passar della falce che pareggia tutte l’erbe del prato.
Tra i misteri che offuscano ed attanagliano l’esistenza umana, quello della morte troneggia come uno dei più imponderabili. Tanto più ciò è evidente quanto è giovane la vita che viene recisa. Eppure, come ricorda la metafora floreale del Manzoni nel celebre passo della Madre di Cecilia, al capitolo XXXIV de I Promessi Sposi, siamo tutti uguali di fronte al tristo mietitore, al cui passaggio viene livellata ogni differenza. Non è bastato essere ricco a Don Rodrigo, per sfuggire alla peste. Non è bastato essere giovane alla piccola Cecilia. Non è bastato essere entrambe le cose a Maria Costanza Sanvitale, nipotina della Duchessa Maria Luigia d’Austria, che pure, stando alla leggenda, sarebbe riuscita in qualche modo ad eludere il sonno eterno. Si narra, infatti, che il fantasma della bambina tutt’oggi si aggiri nella Rocca Sanvitale di Fontanellato, dove ci recheremo per il terzo articolo della rubrica sui Castelli del Ducato e gli spiriti femminili che ancora vi dimorano.
A differenza dei manieri che abbiamo già visitato, questa fortezza non si erge su un’irta china a dominare le vallate sottostanti. Invece, sorge nel bel mezzo della pianura parmense, cattedrale secolare del borgo di Fontanellato, isola quadrangolare dai muri merlati circondata da un ampio fossato. Le origini della Rocca risalgono al 1124, quando i Pallavicino eressero una prima torre a scopo difensivo. La cinta muraria esterna venne invece costruita nel XIV secolo dai Sanvitale, che acquisirono il castello dai Visconti di Milano, e ne completarono la struttura nel Cinquecento con la costruzione e l’adattamento ad appartamento del primo piano. Fino al 1948, il nome dei Sanvitale rimane indissolubilmente legato a Fontanellato e alla Rocca, trasformata da fortezza difensiva in dimora residenziale, nelle cui stanze si percepisce tuttora l’impronta indelebile del nobile casato.
Dalla fuliggine rimasta nel camino della Sala delle Armi, si direbbe che la famiglia viva ancora nel maniero, tanto che non ci si stupirebbe di imbattersi in un rampollo dei Sanvitale intento a suonare il clavicembalo settecentesco interamente dipinto nella Sala della Musica. In effetti, vi è chi giura di aver realmente visto qualcuno. Una sagoma di bambina, dai lunghi capelli neri e di bianco vestita, apparsa alla finestra della Sala da Ricevimento. Si tratterebbe appunto di Maria Costanza, figlia dei Conti Luigi e Albertina, i genitori che, disperati, se la videro portar via prematuramente, quando la piccola, vocata alle belle arti, al canto e al ballo, morì nel 1842, alla tenera età di 5 anni, 7 mesi e 7 giorni. Una tragedia inspiegabile per un padre e una madre, un vero e proprio enigma esistenziale. Tuttavia, non è l’unico mistero custodito nella Rocca di Fontanellato.
Uno scrigno di enigmi ed illusioni
La residenza dei Sanvitale, infatti, non è un castello come gli altri. Prova ne è l’unica Camera Ottica in funzione in Italia, costruita nel XIX secolo nella torre circolare di sud-est, alla fine del giardino pensile, dove la contessa Albertina era solita passeggiare in mezzo a fiori ed edera insieme ai figlioletti. Questo ambiente caratterizzato dal buio e dall’odore salmastro di una grotta, una volta che gli occhi si siano abituati all’oscurità, diviene il teatro di un effetto ottico suggestivo che attraverso un sistema di prismi riflette in tempo reale l’immagine rovesciata della piazza antistante su due schermi concavi posti a modo di tavolini. Moderna caverna platonica, la Camera permetteva così ai Sanvitale di spiare le ombre della vita esteriore senza immergervisi e senza essere visti, con un artificio nato non per controllare i propri sudditi, ma tuttalpiù come gioco della società di fine Ottocento.
Alle illusioni ottiche del torrione che un tempo ospitava una prigione a più piani, inoltre, si accompagnano gli enigmi pittorici di uno dei capolavori del manierismo italiano, situato anch’esso in una stanza stretta e cieca al pian terreno. Si tratta della sublime Camera Picta del Parmigianino, saletta di forma rettangolare chiusa da un soffitto a volta costituito su quattordici lunette, nelle quali l’abile pennello dipinse ad affresco il mito di Diana e Atteone. Il ciclo comincia sulla parete nord, dove due cacciatori inseguono una ninfa che si dirige verso un bosco. Nella parete est, la stessa ninfa è raffigurata con una testa cervina: è Atteone, che, colpevole di essere incappato nella dea dell’arte venatoria a bagno, viene punito da quest’ultima con uno spruzzo d’acqua che lo trasforma in cervo. Quindi, nella parete sud, lo sventurato viene divorato dai propri cani, incapaci di distinguere il cacciatore tramutatosi in preda.
Ma perché rappresentare il protagonista del mito con le sembianze gentili di una ninfa? E qual è il significato della favola illustrata dal Parmigianino su commissione di Galeazzo Sanvitale? Per avere una spiegazione, come Renzo Tramaglino, ci rivolgiamo in alto, verso il cielo. Al centro del soffitto cobalto, infatti, si trova uno specchio, sullo sfondo avorio della cui cornice si legge il motto Respice Finem, “guarda la fine”. È questo un invito a guardare alla fine di Atteone, punito crudelmente per una colpa involontaria, come ricorda un’altra scritta in latino, che corre lungo il fregio al di sotto delle lunette: “A Diana. Di’, o dea, perché, se è la sorte che ha condotto qui il misero Atteone, egli è dato da te come cibo ai suoi cani? Solo per una colpa è lecito che i mortali patiscano una pena: una tale ira non si addice alle dee”. Il fregio inizia e si chiude nella parete ovest, dove primeggia la figura di Cerere, la divinità materna che presiede alla fertilità, ma, in quanto madre di Proserpina, legata anche al tema della morte e della rigenerazione. È lei a marcare al contempo l’incipit e la conclusione dell’intero ciclo di affreschi.
Ma perché il tema della morte innocente? Un indizio, forse, si trova sopra il peduccio che separa le due lunette con il supplizio di Atteone, in cui è raffigurata una bambina che interroga lo spettatore con uno sguardo magnetico, mentre tiene in braccio un neonato con indosso una collana di corallo rosso, un dettaglio spesso raffigurato nelle iconografie sacre al collo del Bambin Gesù quale simbolo della Passione. Secondo la critica, si tratterebbe dei figli di Galeazzo Sanvitale e Paola Gonzaga, dei quali il più piccolo morì prematuramente, appena nato. Proprio Paola Gonzaga, allora, sarebbe rappresentata sotto le spoglie di Cerere, che, bellissima contro uno sfondo dorato con un elegante abito cinquecentesco, contempla l’ingiusto destino del femmineo Atteone, morto innocente, come suo figlio. Innocente, come la piccola Cecilia manzoniana, consegnata ai monatti dalla propria madre splendente di “quella bellezza molle a un tempo e maestosa”. Innocente, come la piccola Maria Costanza Sanvitale, che ancora custodisce gli enigmi e i misteri nell’abbraccio materno delle mura della bellissima Rocca di Fontanellato.