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Le pietre d’inciampo di Parma: “Nomi e luoghi per non dimenticare le vittime delle deportazioni” | INTERVISTA

Oggi 27 gennaio si celebra il Giorno della Memoria, un appuntamento importante che ogni anno dal 2005 ci impegna a ricordare le vittime della Shoah e delle deportazioni che i nazifascisti operarono durante la Seconda Guerra mondiale. “Un Paese che ignora il proprio ieri non può avere un domani. La Memoria è un bene prezioso e doveroso da coltivare“: sono le parole di Liliana Segre, senatrice a vita sopravvissuta a un campo di concentramento. E la coltivazione della memoria deve essere un esercizio continuo, affinché da quel periodo storico, il più buio della storia occidentale, si possa trarre un insegnamento anche per il nostro presente e il nostro futuro.

Nelle città italiane, così come a Parma, è possibile “inciampare” nella memoria. Ci riferiamo al progetto delle “pietre d’inciampo“, pietre d’ottone incise con i nomi di chi ha vissuto la deportazione, i campi di sterminio e la persecuzione razziale, che vengono posate per strada e nei posti significativi per la persona in questione. “Qui abitava”, “qui studiava”, “qui lavorava”: sono piccole biografie quelle che si possono trovare tra i nostri piedi camminando per la città o per la provincia, quando il nostro sguardo viene richiamato dal colore oro che spicca tra il grigio dei sanpietrini. Il progetto di preservazione della memoria è stato avviato dall’artista tedesco Gunter Demnig, che dal 1992 gira in Europa per posare le “Stolpersteine“, le pietre d’inciampo.

L’obiettivo quindi è “fare memoria”, attraverso un nome, un cognome e una data, pochissime informazioni, ma sufficienti per far capire che in quel determinato luogo, circa ottanta anni fa, è successo qualcosa di individuale e singolare, ma comunque inquadrato nella cornice storica degli orrori del nazifascismo. A Parma le pietre d’inciampo sono curate dall’Istituto storico, in collaborazione della Fondazione Cariparma e il Comune di Parma. Per entrare nei dettagli del percorso di pietre della città ducale, abbiamo intervistato Marco Minardi, direttore dell’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Parma.

Una delle ultime pietre d’inciampo posate a Parma (dal sito www.pietredinciampo.it)

Quando è stato avviato il progetto delle Pietre d’Inciampo a Parma? Quante se ne possono contare ad oggi?

Il progetto è stato avviato nel 2017 e per qualche anno abbiamo posato le pietre d’inciampo in città. Da due anni – questo è il terzo – abbiamo iniziato a proporre l’installazione insieme alla Fondazione anche nei comuni della provincia. La politica memoriale che noi seguiamo risponde alla logica di Gunter Demnig, ovvero quello di non mettere tutte le pietre in una volta in un luogo, ma articolarle in alcuni anni, in modo tale che ci sia una certa persistenza nel posare le pietre.

Abbiamo cominciato con alcuni comuni della pianura, e quest’anno per la prima volta andiamo anche montagna, a Bedonia, Borgotaro, ma anche Salsomaggiore e Busseto. Negli ultimi due anni Gunter non viene più in Italia perché il Covid ha reso gli spostamenti complicati, ma contiamo di averlo al più presto.

Qual è il procedimento che va dalla decisione di raccontare una determinata storia all’installazione della pietra?

Proponiamo alla Fondazione i nominativi e il numero di pietre che vorremmo mettere. Lo dobbiamo fare un anno/un anno e mezzo prima, perché le pietre vengono fatte a mano e per farne una ci vogliono circa due ore e mezzo, e sono molte le richieste da soddisfare. Per gli artigiani che incidono le pietre è quindi un lavoro lungo. Noi gliele proponiamo passando attraverso la ricerca storica, con la consultazione delle varie documentazioni che abbiamo, tra cui le banche dati online, che riguardano diverse categorie.

Fin dall’inizio abbiamo scelto di partire dalla deportazione degli ebrei e della Shoah, poi dopo si aggiunge qualche partigiano o deportato politico, e dopo gli internati militari italiani, tra questi prediligiamo quelli che non sono tornati, ma poi anche quelli che sono stati liberati e ce l’hanno fatta. Facciamo un ragionamento storico, quello di capire se la storia della persona è inquadrabile in un contesto storico. Se la documentazione è attendibile proponiamo il nominativo.

Chi fabbrica le pietre?

Il laboratorio di riferimento si trova in Germania e l’artista raccogliendo i vari ordini da tutta Europa impiega per ciascuna pietra alcune ore di lavoro. Il progetto nasce da alcuni artisti che volevano trovare uno strumento di comunicazione per ricordare la Shoah e le deportazioni. Inizialmente hanno provato con delle specie di lapidi, per poi arrivare alle pietre, con cui allo sguardo “ci si inciampa”. Ormai ci sono 79-80 mila pietre sparse in tutta Europa e il luogo in cui vengono incise è sempre il laboratorio tedesco: è un lavoro artigianale, fatto con la mentalità da artisti e da intellettuali.

In quale luoghi vengono deposte le pietre?

Su questo si è molto rigidi: sulla pietra si può mettere “qui abitava”, “qui lavorava”, “qui studiava”, e viene posata davanti alla casa o all’edificio in cui la persona ha vissuto o svolto delle azioni importanti. Talvolta accade, soprattutto in provincia, che l’abitazione sia in aperta campagna, dove non c’è un marciapiede o a volte non c’è nemmeno più la casa. In questi casi si mette davanti al Municipio, come sarà a Fidenza, a Borgotaro, o a Busseto, per indicare che in quel comune abitava la tal persona. In questo modo la pietra è visibile e corretta, ma quando si può si mette in prossimità dell’abitazione o in un luogo significativo della sua vita, a Parma sono tutte così.

Nel corso degli anni, siete riusciti a scoprire storie di persone catturate e deportate da Parma ai campi nazifascisti di concentramento grazie ai loro parenti?

Da quando l’iniziativa è diventata pubblica, ci sono persone che mi scrivono raccontandomi di parenti che hanno vissuto le deportazioni. Noi però non possiamo posare più di 5/6 pietre l’anno, anche perché il laboratorio deve accontentare tutta Italia, e non solo. Dobbiamo seguire un filo. Prima siamo partiti dagli ebrei deportati da Parma, e adesso non ce ne dovrebbero essere più da mettere. Con chi ci fa delle proposte dobbiamo avere un rapporto dialettico, e poi prima di richiedere la pietra dobbiamo comunque passare attraverso la documentazione.

In che modo le famiglie dei prigionieri collaborano con voi?

Questo progetto è nato con il Comune di Parma, che fin da subito ha coinvolto le associazioni partigiane e la comunità ebraica. Spetta quindi al Comune avvisare i parenti, anche attraverso l’archivio anagrafico. In diversi casi i parenti di partigiani o ebrei riusciamo a contattarli anche noi. E altre volte è successo l’opposto: con la posa della pietra i familiari sono venuti da noi, e magari ci hanno consegnato lettere e ricordi.

Abbiamo un sito in cui ci sono tutti i nomi e le schede dei deportati, i risultati della didattica e così via. Teniamo aggiornato il sito ogni anno. Il percorso che facciamo per commemorarli segue le pietre, con delle tappe, poi si svolge un minimo di cerimonia e via via scegliamo una persona da mettere in evidenza. Quest’anno lo faremo in via Corso Corsi per ricordare Aristide Zanacca, che apparteneva ai ragazzi delle barricate, e fu schedato come antifascista. Venne catturato e morì in deportazione. Lui è stato coerente con le sue idee e quest’anno ricorre proprio il centenario delle barricate, quindi abbiamo scelto di raccontare la sua storia, e coinvolgeremo anche il liceo San Vitale.

ll progetto delle pietre d’inciampo permette l’esercizio della “memoria diffusa”. Dal suo punto di vista in che modo questo metodo è utile per ricordare il periodo delle deportazioni?

L’idea è di intercettare chi non ne sa nulla. Chi inciampa su queste pietre e ha un minimo di conoscenza intercetta i dati che gli fanno capire chi era la persona in questione. Devono essere una sorta di opera d’arte che induce a riflettere e capire, soprattutto chi non è informato e anche le generazioni più giovani. Noi mettiamo un nome, un cognome, un luogo, quindi parliamo dell’identità della persona, non del fatto di per sé. In questo modo proviamo a stimolare l’interesse e quindi contribuiamo a “fare memoria”.

Esiste il rischio che le nuove generazioni perdano interesse e attenzione verso quel periodo storico?

Più ci allontaniamo più ci sono cose da ricordare, l’importante è capire che quello che è accaduto durante la Seconda Guerra mondiale ha ripercussioni ancora oggi. La deportazione di 6 milioni ebrei e altrettante persone che si sono opposte sono ancora materia di studio. Noi proviamo da storici a tenere aperto il dialogo su quel periodo storico: le persone che si laureano oggi hanno una visione diversa dalla mia, ma è l’evoluzione del lavoro intellettuale, l’importante è tenere aperto il dialogo. L’Istituto storico di Parma diffida da chi costruisce la storia solo sui sentimenti e le emozioni, perché quelli li ha chi ha vissuto quel periodo, lo studio serve a creare memoria, e le pietre ci aiutano in questo processo.

In che modo è cambiato il vostro lavoro con la pandemia?

Come si può immaginare, soprattutto all’inizio, è stato molto difficile: le biblioteche e gli archivi erano chiusi, le scuole erano in Dad, il lavoro di ricerca era complicato e abbiamo collaborato a distanza. Abbiamo lavorato sui siti, che saranno poi pronti anche nei prossimi mesi. La ricerca è stata il vero problema, molto complicato per tutti noi.

Avete in programma qualche evento per il 27 gennaio, Giorno della Memoria?

Avendo immaginato che le manifestazioni pubbliche al chiuso sarebbero state vietate, in questi primi anni ci siamo organizzati in modo differente. Facciamo la posa delle pietre d’inciampo a Parma e in cinque comuni della provincia. Il 24, il 27 e il 29 faremo insieme alla FIAB, Federazione italiana ciclisti e il Comune di Parma, un giro in bicicletta nei luoghi delle pietre di inciampo: io e i colleghi saremo in giro a raccontare le storie e collaboreranno anche alcune scuole superiori, in previsione di laboratori futuri che sono in corso di programmazione.

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