Salario minimo: che cos’è? A cosa serve? Le risposte del prof. Fabio Pantano dell’Unipr

Se ne sta discutendo molto, soprattutto negli ultimi mesi: salario minimo sì o salario minimo no? L’argomento è tornato d’attualità in seguito alla proposta di legge presentata dalle opposizioni, che chiede l’introduzione di un salario di 9€ minimi l’ora. In particolare, l’acceso interesse di alcuni partiti segue una direttiva europea dello scorso ottobre 2022, dove i Paesi membri sono stati invitati dall’Ue a garantire ai lavoratori “condizioni dignitose”. Ad oggi infatti sono pochi i Paesi Ue che non hanno un salario minimo, e tra i Paesi facenti parte il G7 solo l’Italia non ha introdotto questa legge.

Le stime dicono infatti che ci sono nel nostro paese 3 milioni di lavoratori poveri e l’Italia è lo stato, tra quelli Ocse, in cui si è verificato il calo dei salari reali più forte. Che sia necessario un intervento appare quindi chiaro. Ma dove intervenire e in che modo? Il dibattito attorno al salario minimo si è presto polarizzato, e ha coinvolto anche diverse opinioni da parte dei sindacati. Benché si parli spesso e quasi sempre soltanto dei famigerati 9 €, il provvedimento coinvolge in realtà diversi fattori in modo più complesso e, sicuramente, l’argomento non può essere affrontato in modo sbrigativo.

Il professor Fabio Pantano, Professore associato di Diritto del lavoro presso il Dipartimento di Giurisprudenza, Studi politici e internazionali dell’Università di Parma ha risposto alle nostre domande, affrontando il discorso dal punto di vista giuridico e toccando il tema da diverse angolazioni.

Salario minimo e contratti collettivi nazionali: che cosa sono e perché se ne parla

Come spiega il professor Pantano, “nel vigente sistema normativo, i minimi retributivi garantiti ai lavoratori subordinati sono stabiliti dai cosiddetti contratti collettivi nazionali di lavoro, ovvero accordi stipulati dalle organizzazioni sindacali e dalle organizzazioni dei datori di lavoro al fine di definire trattamenti economici e normativi (retribuzioni, ferie, permessi, congedi ecc.. ). Ogni contratto collettivo nazionale di lavoro trova applicazione nei confronti di tutti i lavoratori di uno specifico settore produttivo. Vi sarà, quindi, un contratto nazionale del settore metalmeccanico, destinato a tutti i lavoratori dipendenti da imprese metalmeccaniche; un contratto collettivo del settore chimico, destinato a tutti i dipendenti da imprese chimiche, e così via”.

In particolare, secondo un’interpretazione unanimemente accettata dell’art. 36 della Costituzione, le retribuzioni minime stabilite dai contratti collettivi non possono essere derogate dai datori di lavoro. Quindi, afferma Pantano, secondo la legge italiana per la stragrande maggioranza dei lavoratori esiste già un minimo retributivo garantito. A restare esclusi sono i settori nei quali la contrattazione collettiva è assente, “un ambito però poco significativo dal punto di vista quantitativo”.

Se fosse approvata la proposta di legge sul salario minimo presentata dalle opposizioni, i minimi retributivi previsti dai contratti collettivi nazionali non potrebbero essere inferiori a nove euro lordi orari. “Di conseguenza, eventuali clausole in contratti collettivi che prevedano retribuzioni orarie inferiori a nove euro lordi sarebbero automaticamente sostituite dal minimo retributivo previsto dalla legge”. Per di più, “una simile previsione troverebbe applicazione anche per i lavoratori non “coperti” dai contratti collettivi”. In sostanza, spiega il professore, “tutti i lavoratori avrebbero diritto a una retribuzione minima di nove euro lordi o a quella più alta prevista dal contratto collettivo, se presente”.

Grande attenzione attorno al tema si è mossa in seguito alla direttiva europea 2022/2041, del 19 ottobre 2022, relativa ai salari minimi adeguati nell’Unione europea, che prende atto del fatto che i paesi membri nei quali il salario minimo è definito dai contratti collettivi, e non dalla legge, presentano retribuzioni minime più elevate. La direttiva, spiega Fabio Pantano, “indica ai Paesi che già hanno una legge sul salario minimo il rafforzamento della contrattazione collettiva, sulla base della convinzione – fondata su evidenze empiriche – che il salario minimo legale non sia in grado, da solo, di garantire condizioni economiche dignitose ai lavoratori. Invece, non si prevede alcun obbligo di definire il salario minimo tramite l’intervento legislativo ai Paesi che demandano tale funzione alla contrattazione collettiva. Per questi ultimi, la direttiva si limita a raccomandare un rafforzamento dell’azione delle parti sociali, al fine di mantenere l’attuale diffusione della contrattazione collettiva o di favorirne un’ulteriore estensione”.

In verità, anche in Italia, l’accesa concorrenza tra le diverse organizzazioni sindacali porta alla stipulazione di più contratti collettivi per lo stesso settore, talvolta da parte di organizzazioni non effettivamente rappresentative, spiega Pantano. “Spesso tali contratti prevedono condizioni di lavoro e retributive meno vantaggiose per i lavoratori, in alcuni casi, con valori salariali inferiori al minimo legale di nove euro ipotizzato dalla proposta di legge in discussione”. In sostanza, il disegno di legge presentato dalle opposizioni si occupa anche di risolvere questa problematica, imponendo che il datore di lavoro “applichi un contratto collettivo sottoscritto da organizzazioni sindacali effettivamente rappresentative”.

Quindi, puntualizza il prof. Pantano, “la lettura del progetto di legge rivela un’impostazione ben più organica ed efficace rispetto alla presentazione mediatica – semplicistica – che ne viene offerta agli elettori dalle stesse forze politiche che lo promuovono. Con ogni probabilità, ciò avviene a causa del minore appeal mediatico di una simile narrazione rispetto a un serio discorso sulle funzioni e i problemi della contrattazione collettiva nel nostro Paese. Proclami fondati su parametri di tipo numerico predefiniti in modo rigido (nove euro) sono di certo più facilmente recepibili dall’opinione pubblica”.

Le resistenze nei confronti dell’introduzione di un salario minimo

Il dibattito sul salario minimo si è presto polarizzato e grossolanamente potremmo suddividere le due parti in chi chiede la sua applicazione, le opposizioni, soprattutto nelle voci della segretaria del Partito democratico Elly Schlein e in quello del Movimento Cinque Stelle Giuseppe Conte, e chi invece – le forze di governo, in primis la premier Giorgia Meloni – si dice contrario alla sua applicazione, visto che comporterebbe il rischio dell’abbassamento di alcuni salari già superiori ai 9 € richiesti dalla proposta di legge.

Come osserva Fabio Pantano, “c’è una posizione storica del sindacalismo italiano contraria all’intervento del legislatore sugli ambiti di pertinenza della contrattazione collettiva, in particolare sulla retribuzione. Tale posizione è stata di recente rivista dalla CGIL, che, oggi, sembra manifestare apprezzamento per un intervento della legge sui salari minimi, quale quello proposto dalle opposizioni. Mentre la CISL si dichiara contraria alla definizione di un salario minimo tramite legge. Con posizioni più conformi alle indicazioni dell’UE”. D’altra parte: “gli argomenti proposti contro la definizione di un salario minimo legale non sono privi di fondamento e ricorrono da tempo nelle prospettazioni di giuristi, economisti e sociologi del lavoro. Non può escludersi che la definizione di un parametro numerico fisso induca un effetto di appiattimento al ribasso delle retribuzioni minime, soprattutto nei settori meno sindacalizzati e caratterizzati da una minore stabilità del lavoro”.

Inoltre, “i datori di lavoro potrebbero essere meno inclini a negoziare retribuzioni più elevate, potendosi assestare su un parametro minimo legale che, comunque, li metterebbe al sicuro da eventuali violazioni dell’art. 36 della Costituzione, il quale impone la garanzia al lavoratore di una retribuzione ‘proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa’”.

In sostanza, “la definizione di uno standard generalizzato porterebbe le retribuzioni più basse a un leggero aumento (perché le statistiche ci dicono che la maggior parte dei contratti collettivi prevede livelli retributivi più elevati di 9 euro lordi), ma potrebbe indurre una riduzione di quelle più elevate, che, appunto, sono molto più rilevanti dal punto di vista numerico”.

L’approvazione del disegno di legge presentato dalle opposizioni comporterebbe un’applicazione generalizzata del limite di 9 euro, ma in proposito occorre un chiarimento. Dichiara Pantano: “Come segnalato anche dall’UE, nel nostro Paese, la contrattazione collettiva ha un’elevata diffusione e provvede a definire minimi salariali vincolanti per la maggior parte dei lavoratori. Il contestuale basso livello effettivo dei salari non può che trovare ragione in un intreccio ben più articolato e complesso di motivi. Mi riferisco, in primo luogo, all’elevata diffusione di forme di lavoro irregolare e alla bassa produttività del lavoro, connessa a caratteristiche strutturali di debolezza del sistema produttivo, quali, tra le altre, la ridotta dimensione delle imprese e la loro scarsa capacità innovativa sul piano tecnologico e gestionale. Occorrerebbero, quindi, interventi più organici, che non si rivolgano soltanto alla definizione di minimi retributivi vincolanti, ma che interessino il tessuto economico nella sua interezza. Ad esempio, è indispensabile rafforzare in modo incisivo il sistema di controllo della regolarità del lavoro, con un notevole incremento del personale degli ispettorati e della sua professionalità.”

I problemi del sistema produttivo italiano

Difatti, sono diversi i problemi che riguardano il sistema lavorativo in Italia, primo fra tutti il basso livello dei salari. “Il fatto è connesso a una molteplicità di fattori strutturali che riguardano il sistema economico-produttivo nella sua interezza. Tra questi, oltre a quelli già menzionati, si pensi alla crisi radicale che ha interessato i movimenti sindacali in tutti i Paesi occidentali a partire dagli anni ’70, dovuta alle conseguenze della globalizzazione. L’utilizzo in maniera appropriata delle risorse del PNRR, con interventi mirati sui settori e sulle problematiche nevralgiche che riducono l’innovatività delle imprese, potrebbe avere un peso determinante.

In generale poi, secondo il professor Pantano, il sistema produttivo italiano è caratterizzato dalla assoluta prevalenza di imprese di dimensioni limitate, tipologia che tende a investire in modo più ridotto sull’innovazione e su modelli organizzativi in grado di favorire la produttività del lavoro. Inoltre, anche la diffusione del lavoro irregolare ha un impatto negativo sulle retribuzioni. Il cosiddetto “lavoro nero”, per definizione, “si sottrae all’applicazione di qualsiasi norma di tutela del lavoro, incluse quelle sulla retribuzione minima. Si pensi, ad esempio, ai part-time fittizi o alle prestazioni rese al di fuori di qualsiasi formalizzazione. Queste situazioni, proprio perché irregolari, non sarebbero intaccate dalla legge sul salario minimo. In questi casi, l’unica soluzione è un radicale rafforzamento ed efficientamento del sistema dei controlli”. La mia convinzione, afferma Pantano, “è che il basso livello dei salari sia frutto di problemi atavici, di tipo strutturale, che attengono al funzionamento del sistema-paese nel suo complesso, e che difficilmente possa essere contrastato con singoli provvedimenti settoriali o, per così dire, con ‘un tratto di penna del legislatore’”.

Il professore conclude: “Il diritto sindacale italiano, proprio per la sua forte caratterizzazione anti-fascista, si connota per una netta diffidenza nei confronti degli interventi legislativi nei confronti dell’organizzazione e dell’attività sindacale, incluse le procedure di negoziazione dei contratti collettivi e la loro efficacia. Questa impostazione ha sottratto l’azione sindacale a qualsiasi forma di interferenza da parte del legislatore, in primo luogo sui livelli retributivi, che costituiscono l’oggetto storicamente più rilevante dei contratti collettivi. Soltanto in ragione della forte crisi della propria capacità aggregativa e conflittuale alcune organizzazioni sindacali si sono dimostrate, in tempi assai recenti, inclini ad accettare interferenze del Parlamento in questi ambiti: prima, durante gli anni ’90, nel settore pubblico e, più di recente, in quello privato.”

Di conseguenza, anche per il forte legame politico tra il sindacato e i maggiori partiti, di governo e di opposizione, la definizione di un salario minimo legale si è rivelato un’ipotesi impraticabile. D’altra parte, come già sottolineato, gli interventi normativi dell’UE non impongono un cambio di rotta in questo senso. Salva la discussione sulla effettiva utilità del cosiddetto salario minimo legale, per i motivi già enunciati, è assai difficile che un simile provvedimento, da solo, possa costituire una soluzione effettiva e permanete al problema dei bassi livelli retributivi in Italia.

© riproduzione riservata