Sant’Antonio Abate è una tradizione secolare che, dalla Bassa all’Appennino, ancora oggi viene festeggiata con diverse celebrazioni e riti che affondano le loro radici nella notte dei tempi. In particolare la ricorrenza è molto sentita dagli agricoltori e dagli allevatori: il Santo, infatti, è anche protettore degli animali. 

Una tradizione in cui, non mancano sprazzi di religiosità attenti a ricercare una “valida protezione” nell’incertezza del lavoro dei campi e delle insidie sempre in agguato di chi alla sera, quando chiude la porta di casa, lascia il suo patrimonio tutto fuori. Una lontana tradizione vuole che i partecipanti alla S.Messa accendessero una candela e portassero in Sagrestia un’offerta in onore del Santo: in cambio gli veniva consegnato un panino benedetto e un santino da conservare nella stalla. 

Il rituale di Sant’Antonio, però, assume sfumature diverse da paese a paese: a Fidenza, fino a qualche decennio fa, era consuetudine far precedere la festa da un’austera vigilia “in magro” e dalla benedizione delle stalle. Un’usanza, questa, che viene ancora oggi conservata in diversi paesi della montagna e della Bassa, a vocazione prevalentemente agricola. A Berceto la visita del sacerdote era accompagnata da un’offerta, da parte delle famiglie, di uova e salame; mentre nella stalla, oltre agli animali, venivano fatti trovare anche sacchi di grano e crusca affinché fossero benedetti. Proprio il salame era il simbolo gastronomico della festa: si teneva da parte quello migliore, per consumarlo con amici e parenti. 

Agli animali era riservato un trattamento speciale

In altre zone dell’Appennino, tra cui Varano de’ Melegari e Bore, la lettiera degli animali veniva fatta non con la paglia, ma con il fieno e i contadini andavano nella stalla vestiti come i giorni di festa. Vi era, poi, la credenza che – nella notte di Sant’Antonio – gli animali parlassero: il 17 gennaio nelle stalle vi era il trattamento migliore, con il fieno più buono; la luce accesa nella notte. Inoltre non si accendeva il forno in casa e nessun animale da cortile veniva ucciso. 

Felino vi era l’usanza di portare in Chiesa il sale, la farina, la crusca e la melica per la benedizione: la farina benedetta era poi sciolta nell’acqua e data da mangiare alle bestie nella stalla. La tradizione dei panini benedetti era ancora in vigore (e in qualche paese la è tutt’ora) in molte zone: da Vianino a Collecchio fino a Castrignano. Qui protagonisti erano i ragazzi che, già una settimana prima della ricorrenza, bussavano di casa in casa per chiedere “un po’ di farina per i panini di Sant’Antonio“. A Borgotaro il sale benedetto il giorno di Sant’Antonio era somministrato agli animali in caso di malattia e la sera della Vigilia di Natale. 

Una tradizione che, ancora oggi, è invariata è quella della benedizione degli animali, che vengono portati fin sul sagrato della Chiesa: parliamo di animali più piccoli, come cani e gatti, ma anche di asinicavalli e mucche. Anche in città si mantiene la benedizione degli animali, nella chiesa di via Repubblica intitolata proprio a Sant’Antonio: nel 1691 vi parteciparono anche i 250 cavalli di Ranuccio II Farnese. Sant’Antonio, infine, porta con sé anche la magia dei proverbi e dei modi di dire in dialetto parmigiano: due, in particolare, i più famosi: “Sant’Antoni da la barba bianca s’èn piova, la neva l’an manca” (Sant’Antonio dalla barba bianca, se non piove la neve non manca) e Sant’Antoni da la gran ferdura. San Lorens da la gran caldura. Vòn e l’ater poch al dura” (A Sant’Antonio il gran freddo. A San Lorenzo il gran caldo. Uno e l’altro poco durano). 

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