Alzheimer: “Malattia cronica curabile, ma non guaribile” | INTERVISTA
In Italia, più del 40% degli ultra 75enni vive da solo ed è a rischio…
In Italia, più del 40% degli ultra 75enni vive da solo ed è a rischio solitudine (Dati Istat 2018). La solitudine e la depressione rappresentano due fattori di rischio per il declino cognitivo e lo sviluppo di demenze negli anziani. L’Associazione Italiana Malattie di Alzheimer afferma: il 70% di tutti i casi di demenza è dovuto al morbo di Alzheimer, si contano più di 10.000 malati di Alzheimer solo a Parma e provincia e 26 milioni di malati nel mondo che sono destinati a raddoppiare nel 2050. La malattia di Alzheimer colpisce una persona su venti oltre i 65 anni (Dati Alzheimer Italia) – con il progressivo allungamento della vita e invecchiamento della popolazione italiana diventa sempre più essenziale incoraggiare azioni di prevenzione, informare adeguatamente la cittadinanza – lottando contro la stigmatizzazione della malattia – e dare risposte assistenziali appropriate agli ammalati e sostegno alle loro famiglie e caregiver.
Abbiamo intervistato Livia Ludovico, neurologa e responsabile del programma Demenze dell’Azienda USL di Parma, per trovare alcune risposte ai quesiti più pressanti sulla malattia di Alzheimer, sulla sua prevenzione e sullo stato dell’arte della ricerca scientifica in materia. Per ulteriori informazioni relative a questa tematica e indicazioni specifiche per i malati e i propri familiari consigliamo di visitare la pagina web ‘Alzheimer e demenze senili: cosa fare e dove andare‘ dell’Azienda USL di Parma.
La malattia di Alzheimer si manifesta con multipli sintomi che impattano la personalità e il comportamento del malato – tra cui aggressività, disturbi di memoria, problemi di linguaggio, disorientamento e perdita delle capacità di giudizio. Come possiamo comprendere se i sintomi che riconosciamo in un nostro caro sono attribuibili a un invecchiamento normale o se rappresentano invece le prime avvisaglie di demenza?
Fondamentalmente, la differenza tra un invecchiamento cerebrale normale e un invecchiamento che comincia a dare dei segni di patologia è legato all’incapacità di gestire la quotidianità. L’anziano, o l’adulto, non riesce più a svolgere in maniera corretta e autonoma quella che era la sua normale quotidianità. A questo si aggiunge anche la difficoltà di apprendere nuovi concetti, seppur semplici. Ad esempio, se la persona deve assumere un antibiotico per un periodo limitato di tempo, potrebbe non essere in grado di farlo correttamente e in autonomia. Questa difficoltà che spesso viene giustificata dai familiari e caregiver è invece tra i primi sintomi della malattia e non va sottovalutato.
Quali sono le funzioni cognitive colpite dalla malattia di Alzheimer e quali comportamenti possono adottare i familiari dell’ammalato per gestire i suoi eventuali conseguenti disturbi del comportamento e sostenerlo efficacemente?
Nelle demenze in senso generale – l’Alzheimer è quella che colpisce più frequentemente secondo tutti i dati ufficiali, sia nazionali che internazionali – una delle funzioni cognitive che è sempre coinvolta è la memoria. Da questo deriva il comportamento di ripetitività – il malato non apprende, quindi chiede ripetutamente sempre gli stessi concetti. Anche la capacità di prestare attenzione viene meno, così come è coinvolto l’orientamento cioè la capacità di distinguere il giorno dalla notte, lo spazio in cui ci si muove, il dove e il quando. Questi sono i principali campanelli d’allarme insieme ad ansia e depressione.
I disturbi del comportamento sono generalmente fluttuanti durante l’evoluzione della malattia, perché possono avere anche cause organiche – ad esempio per un’infezione alle vie urinarie – mentre i sintomi cognitivi sono sempre presenti e determinano la progressione della malattia.
Quali sono le possibilità di cura attualmente disponibili per la malattia di Alzheimer e qual è lo stato dell’arte della ricerca scientifica sul tema?
Premetto che è essenziale che venga fatto, innanzitutto, un inquadramento diagnostico accurato e tempestivo. Tengo anche a sottolineare che non è vero che esistono malattie incurabili – esistono malattie dalle quali non si guarisce. La cura non è solamente la terapia farmacologica. La cura è tutto: è l’assistenza, la consapevolezza di malattia cronica e anche la cura terapeutica. Quest’ultima può essere sia una cura farmacologica sintomatica – la quale agisce sul sintomo ma non risolve il problema – che una cura basata sull’attività di stimolazione cognitiva. Questo tipo di attività è entrata nei LEA ed è garantita nei nostri Centri ed ha la stessa valenza delle cure farmacologiche che vengono somministrate. Per quanto attiene la ricerca, questa è in atto su tre fronti: la prevenzione, i criteri diagnostici e la terapia con anticorpi monoclonali che in Italia come in Europa è praticata con protocolli sperimentali.
Diversi studi suggeriscono che una migliore educazione scolastica, un adeguato esercizio fisico e una vita attiva sul piano intellettuale e culturale rappresentano alcune delle armi più efficaci per contrastare i danni prodotti dalla demenza di Alzheimer. È davvero possibile fare prevenzione di questa malattia?
Alla base della prevenzione si possono individuare alcuni criteri fondamentali. Sicuramente è importante mantenere attivo il cervello, non è solo un discorso di scolarizzazione – da un punto di vista cognitivo il cervello attivo è identificabile nella persona che nella sua vita ha coltivato molti hobby e relazioni ed è stimolato da più interessi possibili aumentando la propria riserva cognitiva. Se, ad esempio, una persona ha un vocabolario ridotto, la demenza avrà effetti più rapidi sulla sua capacità di linguaggio, a differenza di una persona che ha acquisito nel corso della sua vita un vocabolario molto ricco. In questo senso, la scolarizzazione ha un’azione protettiva e preventiva. È importante anche l’attività fisica perché migliora la circolazione e l’ossigenazione a livello cerebrale, stimolando determinati neurotrasmettitori.
Altri fattori importanti sul fronte della prevenzione sono anche una alimentazione corretta ed equilibrata, il controllo della pressione arteriosa, del peso, l’attenzione al diabete, la moderazione di alcol e l’astensione dal fumo (la nicotina è la terza causa di demenza dopo l’età e l’appartenenza al sesso femminile), così come un buon sonno. Da studi epidemiologici di popolazioni svolti in paesi nord europei negli ultimi vent’anni è emerso che questi stili di vita agiscono positivamente anche su una predisposizione genetica, posticipando l’inizio della malattia di 5 anni nelle persone che comunque hanno sviluppato la demenza.
La demenza è considerata una ‘malattia sociale’ perché non colpisce soltanto il malato, ma si ripercuote anche sull’intero nucleo familiare che si trova ad affrontare enormi stress fisici e psicologici. Quanto è importante l’accompagnamento e il sostegno delle famiglie e dei caregiver nel processo di adattamento alla malattia dei propri cari?
È fondamentale. Una volta che la malattia viene diagnosticata ci sono dei momenti dedicati al processo di comunicazione di diagnosi ai familiari, ma anche al paziente. Il paziente può avere una consapevolezza limitata e dimenticare ma la comunicazione deve comunque far parte del processo di cura. I centri Disturbi cognitivi e delle demenze già nella loro istituzione prevedono oltre alla figura del medico, uno o più psicologi e infermieri. Sia i Centri che varie associazioni di volontariato rendono disponibili una serie di attività specifiche per i familiari che vanno oltre il sostegno psicologico, offrono anche momenti di informazione e formazione per dare strumenti di conoscenza sulla malattia. Vengono organizzate anche attività istituzionali di informazione per la cittadinanza volte a fare prevenzione e stimolare un senso di accoglienza verso i malati lottando contro la stigmatizzazione della demenza. È necessario ricordare che sono presenti sul territorio i servizi che fanno capo alle amministrazioni comunali, tra cui gli assistenti sociali, i centri diurni e alcuni progetti di sostegno e riconoscimento anche economico al ruolo di caregiver che ha predisposto la Regione Emilia-Romagna.
Gli spazi e le strutture residenziali e di accoglienza per anziani non sempre sono in grado di fornire ai propri utenti ambienti consoni alle loro necessità e rischiano di amplificare in loro un senso di solitudine, abbandono e sofferenza – specialmente nel caso di persone affette da Alzheimer. È possibile ripensare gli spazi e l’architettura delle strutture per anziani in ottica più efficace e sana? L’accesso a ampi spazi verdi – come il Giardino Alzheimer dell’RSA parmense I Lecci e il giardino terapeutico nella Casa Madre Teresa di Calcutta a Padova – può essere un fattore chiave nella rielaborazione strutturale di questi contesti?
Sicuramente sì, come ampiamente descritto in letteratura e in diversi modelli di assistenza, un buon ambiente protesico favorisce e migliora soprattutto gli aspetti comportamentali dei pazienti con disturbi cognitivi. In questo senso, è necessaria una concertazione di più attori e istituzioni – Aziende sanitarie, Comuni, enti gestori, terzo settore e il privato.
Il CUPLA ha redatto un opuscolo – la Carta dei Diritti delle Persone Anziane e i Doveri della Comunità – che si propone di fondare le basi e alcuni principi cardine per una nuova prospettiva di assistenza agli anziani in vista del progressivo allungamento della vita media della popolazione. Conosce questa Carta? Se sì, crede che iniziative simili a questa possano avere un importante impatto anche sulla tutela delle persone affette da Alzheimer?
Così come con la Carta di Firenze è stato presentato un manifesto contro l’ageismo in sanità a un convegno di geriatria nazionale è fondamentale garantire a una persona anziana una equità di servizi così come è fondamentale garantirla a una persona giovane ed adulta. Questa tematica incontra anche la questione dell’autodeterminazione delle persone – la legge 219 del 2017, quella che viene definita testamento biologico e disposizioni anticipate di trattamento.