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Castelli e spiriti femminili: la fragilità umana a Varano de’ Melegari

In una camera senza finestra, ardeva un fuoco contenuto da un alto e robusto paracenere,…

Varano de' Melegari

Varano de' Melegari

In una camera senza finestra, ardeva un fuoco contenuto da un alto e robusto paracenere, e una lampada sospesa al soffitto con una catena. […] Immersa nell’ombra, nell’angolo più remoto della stanza, una figura si agitava avanti e indietro. Cosa fosse, se una bestia o un essere umano, a prima vista non si poteva dire: sembrava che strisciasse carponi. Si muoveva e ringhiava come una strana fiera, ma era coperta di vestiti, e una massa di capelli scuri e brizzolati, selvatica come una criniera, ne celava la testa e il volto.

Con queste parole Charlotte Brontë introduce una delle figure più ambigue e affascinanti della letteratura inglese dell’Ottocento, al capitolo XXVI del suo capolavoro, Jane Eyre. È Bertha Mason, la prima moglie di Mr. Rochester, che questi ha rinchiuso in un’oscura soffitta per celarne la natura folle e ferina, antitetica rispetto alla severa etichetta della società vittoriana. Rispetto alla proverbiale compostezza britannica, un’irregolarità intollerabile, un’eccezione incompatibile, e perciò segregata dal resto del mondo. Un corto circuito, dunque, dentro un meccanismo oliato alla perfezione, che rischia di mettere in crisi l’intero sistema. Un po’ come accaduto nella fortezza di Varano De’ Melegari, inattaccabile dall’esterno ma non invulnerabile all’interno, come ci ricorda la triste vicenda di Beatrice Pallavicino, la protagonista del quinto articolo della rubrica sugli spiriti femminili che ancora infestano i Castelli del Ducato.   

Annidata su uno scoglio di pietra arenaria dell’Appennino parmense, la roccaforte domina col proprio occhio rapace tutta la sottostante vallata del Ceno. Le sue origini risalgono addirittura alle ultime propaggini dell’Alto Medioevo, benché la prima fonte scritta che ne certifichi l’esistenza sia la “Cronaca Pallavicina” del 1087, anno in cui venne ereditata da Uberto Pallavicino, discendente del capostipite Adalberto. Costruito inizialmente per porre un freno alle invasioni ungare e saracene, il Castello di Varano finì per diventare la stella polare nell’ampia costellazione di rocche e fortezze con cui il nobile casato dei Pallavicino si assicurò per molti secoli il controllo delle principali vie di collegamento tra Emilia, Toscana e Liguria. L’aspetto attuale, tuttavia, si deve principalmente agli interventi di ampliamento e potenziamento di fine Trecento voluti da Niccolò Pallavicino con il benestare e, probabilmente, anche il contributo ideativo di Gian Galeazzo Visconti, abile stratega oltre che potente Duca di Milano. La famiglia fondatrice rimase in controllo del Castello fino al 1828, quando vi subentrarono i Grossardi, nobili esponenti della Carboneria, a loro volta sostituiti dai Levacher, che vi abitarono fino a metà del secolo scorso.

Ciononostante, neanche il cambio di proprietà ha potuto scomporre il binomio Varano-Pallavicino, considerata l’impronta lasciata dall’antico casato feudale. Impronta visibile tutt’oggi non solo nell’imponente architettura dell’edificio, ma anche nei segni di un’inquietante leggenda. Si narra infatti che nelle sale e nelle torri del Castello riecheggino dei lugubri sospiri di dolore, e che misteriose sagome si aggirino nel buio. Tra queste, una figura di giovane donna, avvolta in un abito pallido come la morte, che la sottrasse a questo mondo per restituirvela come fantasma. Si tratterebbe, appunto, di Beatrice Pallavicino, moglie di Giovanni Barbiano di Belgiojoso, da cui, secondo le fonti araldiche, avrebbe avuto ben quattro figli in un matrimonio durato appena un anno. La fanciulla morì infatti appena ventunenne, in circostanze oscure, forse precipitando dalla sommità del mastio. Forse suicida, forse spinta da qualcuno. Forse, dal marito stesso. Sui dettagli, le cronache del tempo tacciono, come spesso accade per le vicende scabrose di famiglie altolocate. A distanza di secoli, il mistero rimane dunque irrisolto, e la Dama Bianca del Castello ancora senza pace.

La crepa nella fortezza

Nulla dell’aspetto severo della roccaforte suggerisce un accenno di debolezza. Quanto alla forma, il Castello riprende la collaudata pianta quadrangolare che accomuna le costruzioni difensive dell’epoca, ma vanta anche una serie di caratteristiche peculiari che lo contraddistinguono come autentico gioiello dell’architettura medievale. Innanzitutto, l’infrangibile cinta muraria della fortezza – alta fino a trenta metri e spessa fino a quattro –, segue un andamento apparentemente irregolare, dal momento che s’installa direttamente sul perimetro dello sperone roccioso di cui l’edificio sembra così il naturale coronamento. Inoltre, dalla sua posizione sopraelevata, e protetta dai due corsi d’acqua che cingono lo scoglio di arenaria, la rocca risulta ancor più inespugnabile grazie all’ingegnoso sistema difensivo dell’ingresso, dove si ergono non due, ma ben tre massicce torri allineate. L’accesso si apre alla base di quella centrale, ma in un’inedita posizione defilata, che proteggeva così il portone tanto da proiettili e frecce incendiarie scoccati da lontano quanto da arieti e altre ingombranti strutture d’assedio adoperate da un eventuale invasore.

Oggi, per i visitatori è possibile varcare questo adito insuperabile, per esplorare la corte, i camminamenti di ronda, la terrazza panoramica e gli ambienti interni. Tra questi, ricordiamo l’austera ala quattrocentesca, con la ricca Armeria, e la più raffinata e luminosa ala signorile del primo piano, con l’elegante scalone settecentesco, lo studio ed il Salone d’Onore, ove l’affresco che ne contorna le pareti reinterpreta antichi simboli del passato in chiave moderna, secondo il gusto dei Grossardi. A dominare la scena, tuttavia, rimane l’imponente mastio, il nucleo più antico e importante del Castello. Originariamente accessibile solo attraverso un ponte levatoio sospeso, il torrione rappresentava al contempo l’occhio e il braccio del castellano, in quanto principale punto di vedetta e per via della famigerata prigione del Bentivoglio posta alla sua base, un tetro antro senza luce ove venivano rinchiusi i nemici.  

La reputazione del Castello di Varano de’ Melegari quale fortezza inespugnabile poggia dunque su salde fondamenta. Tuttavia, neanche le mura colossali sono risultate inscalfibili di fronte alla crepa scavata dalla triste vicenda di Beatrice Pallavicino, assurta a simbolo della fragilità della condizione umana mascherata dietro l’aspetto solido e sicuro della rocca. Così, come Bertha Mason rappresenta il negativo di Jane Eyre, dando corpo e anima agli impulsi ferini più reconditi dell’inconscio, malcelati dietro una patina di ipocrita rispettabilità, così l’oscuro episodio della Dama Bianca proietta sul Castello l’unica ombra in grado di insidiarlo. L’ombra non di un assedio, ma piuttosto di un dramma interno, figlio della parte sottaciuta della natura umana, che più si tenta di tenere sottochiave, più finirà per erompere con violenza. Non è bastata una soffitta senza finestre per silenziare e domare Bertha Mason nel romanzo di Charlotte Brontë. Non sono bastati il possente mastio e la cinta muraria per proteggere Beatrice Pallavicino, e soffocare così sul nascere la leggenda del Castello di Varano de’ Melegari.

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