È necessario che ciascuno scenda una volta nel suo inferno” scriveva Cesare Pavese in uno dei suoi “Dialoghi con Leucò”. La stessa cosa che noi italiani ci siamo detti nel novembre del 2017, quando il doppio confronto con la Svezia escludeva la nazionale dai Mondiali, per la prima volta in sessant’anni. L’amara delusione per un fallimento epocale aveva pian piano lasciato il posto alla consapevolezza che fosse ormai necessario riedificare l’intero sistema calcistico. E che un disastro del genere capitasse al momento giusto per accelerarne i tempi. L’arrivo di Roberto Mancini e la sua politica di ringiovanimento della rosa rappresentavano il primo, grande, cambiamento di rotta. Che avrebbe portato immediatamente una striscia di risultati positivi e, soprattutto, l’inaspettato trionfo nell’Europeo itinerante del 2020, rimandato all’estate successiva per la pandemia di Covid-19. Un successo impensabile alla vigilia, che, dopo diversi anni tribolati, restituiva agli Azzurri un ruolo di primo piano tra le grandi rappresentative, anche in vista dell’imminente Coppa del Mondo in Qatar.

L’ondata d’entusiasmo per le grandi cose fatte nei mesi precedenti e la ritrovata coesione del gruppo spegnevano qualsiasi timore riguardo il girone di qualificazione, anche da parte dei più pessimisti. Svizzera, Bulgaria, Lituania e Irlanda del Nord erano le quattro squadre con cui contendersi il primo posto, l’unico utile ad ottenere un pass diretto per il Medio Oriente: dopo il trauma del 2017, arrivare secondi ed essere costretti a passare dai playoff era un’opzione da non prendere neanche in considerazione. Del resto, gli elvetici erano stati già domati con un netto 3-0 (doppietta di Locatelli e gol di Immobile) soltanto pochi mesi prima, durante la campagna continentale. E le altre tre contendenti, a meno di un miracolo sportivo, non avrebbero avuto alcuna possibilità di impensierire le prime della classe. La strada sembrava già spianata per la banda di Roberto Mancini.

Di nuovo play-off

Ma è a questo punto che si consuma la tragedia. Salutata la storica estate del 2021, tra settembre e novembre la nazionale ripiomba in una crisi di concretezza che, di lì a poco, avrebbe trasformato un girone di qualificazione ancora più abbordabile del precedente in una trappola perfetta. Prima un deludente 1-1 all’Artemio Franchi di Firenze contro una non irresistibile Bulgaria, poi il doppio pareggio con la diretta avversaria, la Svizzera (0-0 a Basilea il 5 settembre, 1-1 a Roma il 12 novembre), condito da una beffa straordinaria: sia nella partita d’andata che in quella di ritorno, l’Italia perde l’occasione di portarsi in vantaggio e di conquistare i tre punti a causa di un errore dal dischetto. Proprio i calci di rigore, che tante gioie avevano regalato nelle “notti magiche” di luglio. Proprio quel Jorginho, che dagli undici metri aveva deciso la semifinale con la Spagna e che, dopo una stagione memorabile, si ritrovava in lizza per il Pallone d’Oro, il più prestigioso premio individuale del panorama calcistico.

Se è vero, come dice De Gregori, che “non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore”, bisogna riconoscere che senza quei due errori staremmo a parlare (o, più probabilmente, a non parlare) di una storia completamente diversa. Di un’Italia presente in Qatar e forse capace di dire la propria, senza necessariamente compromettere quel disegno, ancora occulto, che avrebbe portato la coppa tra le mani di Leo Messi. Invece, la duplice svista spalancava nuovamente le porte dell’Ade: non battere la Svizzera significava consolidare uno “status quo” che vedeva proprio gli elvetici in testa e gli Azzurri ad inseguire, senza alcuna possibilità concreta di rimonta. Il treno non sarebbe passato una terza volta e, infatti, la nazionale italiana si rivedeva costretta ad affrontare lo spauracchio playoff nel successivo mese di marzo.

Magari vinciamo i Mondiali con un rigore di Jorginho. Ai playoff possiamo e dobbiamo crederci: quello che abbiamo fatto in estate non è casuale“. Con dichiarazioni di questo tenore, il CT Roberto Mancini aveva condito di ottimismo il lungo inverno d’attesa, provando a mantenere alto il morale dei connazionali. Una speranza di cui l’ambiente aveva necessariamente bisogno, soprattutto dopo l’infausto sorteggio: nella nuova formula del mini torneo “quadrangolare”, gli Azzurri avrebbero dapprima affrontato un avversario poco temibile come la Macedonia del Nord, per poi trovare in finale una tra Turchia e Portogallo. I lusitani, campioni d’Europa nel 2016 e tra i favoriti per il Mondiale, erano i peggiori clienti che l’Italia potesse incontrare: era impensabile che Cristiano Ronaldo rinunciasse all’opportunità di conquistare l’ultimo grande trofeo della sua carriera e di volgere a proprio favore l’eterna rivalità con il fuoriclasse argentino.

La partita con la Macedonia

Di fronte a un tale pericolo, capace di focalizzare l’attenzione dei media e dei tifosi italiani per diversi mesi, la semifinale con la Macedonia rischiava di essere eclissata e ampiamente sottovalutata. Come se si trattasse di una tappa indispensabile ma innocua del cammino, da attraversare in fretta e senza troppo dispendio di energie. La partita era in programma il 24 marzo, esattamente un anno fa, allo stadio Renzo Barbera di Palermo. Un gran numero di tifosi raggiunge la Sicilia per godersi una bella vittoria e dare l’ultimo incoraggiamento agli uomini di Mancini prima che prendano il volo per Istanbul o Porto. Nessuno di loro immagina che quella passerella primaverile si sarebbe trasformata presto in una serata da incubo.

Come previsto, la partita viene dominata dall’Italia. La qualità degli Azzurri emerge sin da subito, ulteriormente evidenziata dalle lacune tecniche dei macedoni, costretti a fare i conti con la pesante assenza dell’unico calciatore in rosa abituato a calpestare certi palcoscenici, il “napoletano” Elmas. Ma, dai primi minuti, comincia a delinearsi anche un altro aspetto della gara, che chiunque abbia una discreta esperienza in materia riconosce come un campanello d’allarme e un brutto segno: la squadra di Mancini non capitalizzava le (tante) occasioni create. La più clamorosa avviene al 30′ di gioco: il portiere della Macedonia regala la palla a Domenico Berardi, il quale, davanti a una porta completamente sguarnita, calcia troppo debolmente e favorisce il rientro tempestivo del numero uno avversario.

Per novanta minuti, la partita si svolge quasi esclusivamente nella metà campo macedone, dove l’Italia cerca di passare in vantaggio, sempre più disperatamente con lo scorrere del tempo. Le occasioni sono tante, ma vengono malamente sprecate: gli Azzurri si dimostrano incapaci di segnare. E la dura legge del calcio prevede che ad ogni leggerezza segua un’adeguata punizione: al 92′, in pieno recupero, Aleksandar Trajkovski lascia partire un potente diagonale dai venti metri che sorprende Gigio Donnarumma, fino a quel momento mai veramente chiamato in causa. Allo sperpero italiano replica l’incredibile concretezza dei macedoni, capaci di andare in gol al primo tiro in porta, arrivato dai piedi di un calciatore che dal 2015 al 2019 aveva militato proprio nel Palermo. Seguono alcuni minuti confusi, troppo pochi per riordinare le idee e cercare di riacciuffare il pareggio. L’Italia si ritrova per la seconda volta consecutiva fuori dal Mondiale. L’Italia si riscopre vulnerabile, proprio quando pensava di non correre alcun rischio. L’Italia riscende ancora una volta nel suo inferno.

Dare all’Italia quel che è dell’Italia…

Come spiegarsi una disfatta così simile a quella di Gian Piero Ventura, in un momento così differente nella storia della nazionale? Questa volta nessun segno premonitore, solo un fulmine a ciel sereno tra trofei e record. C’è chi si lascia andare alle analisi più fantasiose: i maggiori detrattori di Roberto Mancini riconoscono come una casualità e un’eccezione non la mancata qualificazione, ma proprio quel trionfo all’Europeo che aveva alzato notevolmente l’asticella delle aspettative. In fin dei conti, Spagna e Inghilterra erano state sconfitte solo attraverso la “lotteria” dei rigori. In molti, però, dimenticano l’importanza di Donnarumma (non a caso premiato come miglior giocatore del torneo), abituati a considerare il portiere come un membro particolare, quasi esterno alla squadra e poco rilevante nella valutazione della stessa.

La verità è che, sminuendo l’impresa di Wembley, non si arriva da nessuna parte. Ogni vittoria calcistica presuppone una buona dose di fortuna, soprattutto in un torneo ad eliminazione diretta, con gare secche che in novanta minuti esprimono un verdetto sul tuo operato degli ultimi due anni. Sicuramente nell’estate del 2021 molte cose sono andate nel verso giusto, ma non parliamo di pianeti allineati. Allo stesso modo, nei mesi successivi, dettagli sulla carta insignificanti (come due rigori) hanno deciso le sorti della Nazionale e prodotto tutta la retorica in cui siamo ancora immersi. Senza dimenticare il lungo infortunio di Federico Chiesa, alle prese da più di un anno con problemi al ginocchio, che hanno privato la Nazionale e la Juventus del proprio uomo più incisivo, riconosciuto da mezza Europa come l’astro nascente del calcio italiano.

… eppure qualche problema esiste

Detto questo, la vittoria di un Europeo non può essere considerata un punto di arrivo. Le grandi squadre sono quelle che dimostrano continuità e, in un contesto come quello delle nazionali, la continuità passa necessariamente da un efficiente ricambio generazionale. La sensazione è che sia proprio questo il vero problema dell’Italia. La squadra del 2021 era un perfetto mix di esperienza e gioventù. Ma i vari Bonucci e Chiellini non sono eterni e trovarne i giusti eredi è difficile in un Paese che sforna rarissimi talenti. Se, vent’anni fa, un attaccante del calibro di Vieri, Lucarelli o Montella veniva lasciato a casa a cuor leggero, oggi, per trovare una punta italiana che non sia Immobile e che segni almeno dieci gol a stagione, è necessario cercarla in un campionato minore o correre in Sudamerica a naturalizzare un argentino. Come accaduto nelle scorse ore a Mateo Retegui. Un ragazzo che non ha mai vissuto in Italia, chiamato a difendere (egregiamente, visto il gol di ieri sera, ma non è questo il punto) un Paese con il quale non ha nessun legame, se non l’origine del nonno materno.

Molti difendono questa scelta, tracciando un paragone con la Francia, che ha costruito una rosa stellare e vincente ricorrendo quasi esclusivamente a calciatori di origine africana. Ma non c’è niente di più sbagliato: i ragazzi di Deschamps sono tutti nati e/o cresciuti in Francia e la loro esplosione non fa altro che confermare la qualità dei settori giovanili francesi. Il problema – e la sua soluzione – sono sempre alla radice: in Italia mancano investimenti concreti nel calcio giovanile. La conseguenza diretta è che nelle grandi squadre italiane giocano sempre meno calciatori italiani. Roberto Mancini sta cercando di farlo capire, con convocazioni spesso sorprendenti e provocatorie, come quella di Retegui. La speranza di tutti è che il segnale venga accolto da chi di dovere, perché, con tutto il bene che possiamo volere a Mateo, assistere alle dichiarazioni a fine partita di un giocatore della nazionale che parla in spagnolo e che necessita di un traduttore è soltanto imbarazzante.

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