La pieve di Fornovo è un capolavoro assoluto: gli elementi del grottesco si fondono con trame infernali, in un intrigo di misteri

@FrancescoGallina

Se fosse un’osteria, si chiamerebbe Taverna dei Satanassi, e agli infernali fornelli ci sarebbero diabolici Carlo Cracco che preparano ragù di avari e purè di peccatori vari e compositi. Gente che s’è tenuta tutto per sé, e non ha sborsato un soldo ai bisognosi, ma soprattutto alla Chiesa. Gente che merita di finire dentro un calderone di pece bollente, a cottura lenta, perché i demoni godono del male altrui. E ridono. Per gli uomini del Medioevo il messaggio era chiaro: o paghi le decime, o diventerai sugo per condire i piatti di Lucifero.

Ottocento anni prima della teorizzazione del grottesco, la pieve di Santa Maria Assunta di Fornovo ci offre uno dei più bei bassorilievi bassomedievali d’Italia. Sulla facciata a capanna, l’episodio dell’avaro all’Inferno è un capolavoro assoluto, talmente originale da anticipare le forme di un vivace cartone animato; con un diavolo sghignazzante terribilmente somigliante a Spank di “Hello! Spank” e un altro che sembra un alieno uscito da Futurama.

La lastra murata, in origine appartenente all’ambone, rappresenta sulla destra la già descritta cucina diabolica, mentre sulla sinistra offre l’enorme fauce di un drago dalle orecchie asinine e occhi equini. Un demone scaglia all’interno della sua bocca i dannati. Al centro, l’Avaro per eccellenza, gravato da pesi di ogni tipo: una grossa borsa, due bisacce che gli caricano le spalle e un grosso scrigno che gli viene posto sulla schiena da due diavoli.

Un contenitore romanico che presenta grandi interrogativi

Due lesene si aprono alle estremità. Quella di sinistra è decorata con un bassorilievo, un tempo di cantone, che raffigura l’Episodio dei lottatori. A destra, invece, due contrafforti comprendono l’ingresso laterale ad arco a tutto sesto, sormontato da un archivolto romanico in cui il tema della lotta è protagonista; al vertice domina un’aquila, circondata da animali quali un grifone, un drago, un uccello, un animale composito con la coda a trifoglio, due cavalli e quello che potrebbe essere un cacciatore. Una scena di caccia, dunque?

Ancora velata dal mistero è l’identità della statua acefala, scolpita quasi a tutto tondo, e che, sempre sulla facciata, si mostra allo spettatore caricata da cesto sulle spalle, con una bisaccia, un secchio e alcune chiavi appese alla cintura. Forse un pellegrino? Sicuramente il segnale stradale più rassicurante per il pellegrino reale. Le chiavi fungono da spia: sei sulla strada buona per Roma, dicono.

L’interno: spoglio solo all’apparenza

Ma lasciamo i nostri irrisolvibili interrogativi, ed entriamo, accolti dai capitelli narrativi del nartece: peccato originale, in primis, ma anche scene di danze e di animali. Sempre nel nartece – spazio riservato ai catecumeni e ai penitenti – ci si palesano le sculture di un re e di un vescovo. Figure che, accostate, non possono non farci pensare alla spietata lotta per le investiture, che prese avvio proprio nell’XI secolo, epoca a cui risale la nostra pieve, che non ha ancora finito di regalarci i suoi tesori.

Ecco allora la lastra frontale del pulpito, il cui marmo bianco ci racconta – con stile antelamico – la passione di Santa Margherita di Antiochia, martirizzata sotto l’imperatore Diocleziano. Eccola dunque davanti al perfetto Olibrio, brutalmente torturata e rinchiusa in carcere, trionfante in lotta contro il demonio e nel momento del martirio. Il campanile rintocca il mezzogiorno. Lasciamo alle spalle le tre navate e usciamo, alla ricerca di una qualche buona Osteria dove sgranocchiare qualcosa. Magari non carne di avaro.

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