Alla fine della Seconda Guerra mondiale la legge sul voto alle donne: l’importanza di quel giorno e il problema culturale misogino che ancora persiste

Il 1 febbraio 1945 le donne italiane si sono svegliate, per la prima volta, da cittadine. Quello di 75 anni fu il giorno del decreto legislativo del Consiglio dei Ministri presieduto da Ivanoe Bonomi, che riconobbe il voto femminile. La proposta partì da Palmiro Togliatti e Alcide De Gasperi, che per primi e più dei colleghi si batterono per dare la possibilità alle persone di sesso femminile di recarsi ai seggi e finalmente esprimere la propria idea politica. Le donne si svegliarono quindi da cittadine, con la consapevolezza forse di vedersi protagoniste di un percorso di parità di genere, ancora oggi da compiere.

Troppo emotive, troppo ignoranti, troppo deboli. Figuriamoci se il pensiero politico di queste persone era tollerato o semplicemente ammesso fino al ’45, sul tramonto della più grande dittatura che il nostro Paese abbia mai vissuto. Le donne erano troppo suscettibili e influenzabili, e metterle alle urne ad esprimere il loro pensiero sembrava follia. Il percorso è stato lungo, e i numerosi pregiudizi hanno rallentato e complicato l’obiettivo del suffragio femminile. La beffa di Mussolini a caccia di consenso, fece sì che nel 1924 fu data alle donne la possibilità di votare per le amministrative; peccato però che il Duce l’anno successivo con le leggi “fascistissime” abolì del tutto le nomine comunali, sostituite dalla carica governativa del podestà. Quella del dittatore non fu assolutamente una mossa progressista in merito al suffragio femminile, e l’Italia dovette aspettare la fine della guerra per fare i conti con il problema. La costituzione del Governo di Liberazione Nazionale fece accendere gli animi, soprattutto delle donne stesse, che reclamavano la possibilità di votare e di essere elette. Fino a quando appunto, arrivò il 1 febbraio.

La legge escludeva le donne più giovani di 21 anni e le prostitute, e vietava per esempio di recarsi ai seggi con il rossetto, perché poteva macchiare la scheda e rendere nullo il voto. I pregiudizi infatti erano ancora alti tra la popolazione e certo non bastò e non basta tuttora una legge per cambiare l’opinione di milioni di italiani. Se quindi le leggi sono fondamentali per mettere dei punti e garantire diritti e doveri, allo stesso modo ci sarebbe da lavorare sull’educazione delle persone. E la misoginia non è un problema solo italiano. La ricca e super-moderna Svizzera ad esempio, ha introdotto il suffragio universale soltanto nel 1971, il largo ritardo rispetto ad altri paesi europei. Ma allargando lo sguardo oltre i confini comunitari, sappiamo bene che in molti paesi del Medio Oriente le donne ancora sono subordinate al padre o marito. Oppure basta recarsi vicino Roma per un dato assai preoccupante: nella Città del Vaticano non c’è suffragio femminile e gli elettori nel conclave sono solo maschi.

Ma forse il problema non è nemmeno percepito in modo così grave quanto in realtà sia, anche qui in Italia. Paese del G7, e quindi tra i più ricchi al mondo, luoghi meravigliosi e meta di turisti da tutto il pianeta, ma con un gap salariale tra donne e uomini ancora di 2700 euro. Paese di donne bellissime e meritevoli di avere un ruolo di primo piano nella televisione pubblica, perché capaci di restare dietro a un grande uomo. Paese semplicemente con un elenco immenso di parole che se declinate al femminile sono offensive: “uomo di strada” e “donna di strada” non hanno proprio lo stesso significato. Questo per dire che la parità di voto è stato uno step dovuto e fondamentale, ma il punto di arrivo per spaccare il soffitto di cristallo è ancora molto lontano. Il problema nel problema infatti, è che sembra difficile essere ottimisti, se persino esponenti e giornalisti della vita pubblica italiana hanno la vista ancora appannata e troppi libri lasciati chiusi sullo scaffale. Basta pensare che la frase di un giornalista italiano su un quotidiano nazionale “… grande in cucina e grande a letto. Il massimo che in Emilia si chiede a una donna“, risale soltanto al 5 dicembre scorso.

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