Simona Magliani, psicologa e psicoterapeuta risiedente a Cerreto Alpi, sull’Appennino Tosco-Emiliano, è da poco tornata a casa dopo aver trascorso qualche giorno a Faenza, uno dei centri romagnoli più colpiti dall’alluvione. E’ stata attivata come SIPEM, Società Italiana Psicologia dell’Emergenza, ed è partita per offrire la propria disponibilità e il proprio contributo come psicologa dell’emergenza. La testimonianza di Simona vuole mettere in evidenza un’emergenza che non può definirsi ancora conclusa, in particolare a livello psicologico. I primi giorni di duro e assillante lavoro si sono infatti trasformati in una serie di manifestazioni di disagio e disperazione che hanno messo a dura prova i cittadini romagnoli.

La città di Faenza sembra essersi chiusa nel silenzio dello sconforto e del dolore. Le case allagate e le strade piene di fango hanno portato migliaia di persone a vivere nella precarietà, nella mancanza di adeguati servizi igienico-sanitari e soprattutto nel terribile ricordo di quella tragedia che ha portato loro via tutto. Ecco allora l’importanza di un attento supporto psicologico, frutto della collaborazione tra i volontari e l’amministrazione comunale, che ha permesso agli psicologi di entrare in sintonia con i cittadini sfollati e di infondere in loro quella fiducia necessaria grazie alla quale si possa tornare a sperare in una nuova Romagna.

Come hai vissuto questa esperienza da volontaria in Romagna e di che cosa ti sei occupata nello specifico?

Io faccio parte di due associazioni che sono sotto la protezione civile: ANPAS, psicologi delle emergenze, l’associazione che gestisce Croce Rossa e Croce Verde, e SIPEM, Società Psicologi delle Emergenze, con sede a Parma. Io sono stata attivata al momento come SIPEM e mi hanno chiesto di partire per Faenza. Il nostro compito principale è quello di supporto nei centri degli sfollati, gestione e controllo di grandi aree gioco, dove le famiglie portano i bambini quando vanno a spalare, perché di fatto le scuole sono state chiuse una settimana ed hanno riaperto nella giornata di ieri (25 maggio). Dovevamo inoltre verificare che non ci fossero casi da segnalare all’ASL o comunque da attenzionare che non ci fossero bambini traumatizzati. Un altro compito era quello di pattugliare le strade, stare quindi in mezzo alla gente, dove spesso si viene richiamati a causa di situazioni piuttosto difficili, soprattutto in questi ultimi giorni. Se inizialmente erano molto impegnati sul fare, ora iniziano ad avere problematiche psicologiche di crisi abbastanza importanti, quindi nel caso dovessimo riscontrare delle problematiche, anche in quel caso dobbiamo fare riferimento all’ASL e fare delle segnalazioni per la presa in carico. Abbiamo però anche vere e proprie segnalazioni con indirizzi, quindi l’amministrazione comunale con tutto il COC, ovvero il centro operativo che coordina tutti i lavori, segnala i numeri civici delle abitazioni dove si sono riscontrati dei problemi, ad esempio richieste di aiuto, attacchi di panico, tentati suicidi, e noi interveniamo per cercare di agire sulla persona per tenere monitorata la situazione. Un altro aspetto importante riguarda il supporto agli insegnanti. Nei giorni scorsi abbiamo attivato degli incontri zoom e abbiamo preparato un vademecum di segnalazioni generiche da offrire a tutti gli insegnanti di Faenza che hanno ripreso la scuola ieri. Sono poi state fatte tre riunioni rispettivamente per nido-materna, elementari e medie gestite da uno psicologo che appartiene alla Sipem. Dopo essere stati contattati dall’amministrazione comunale abbiamo operato anche dei piccoli interventi sui paesi limitrofi un po’ isolati.

Sappiamo, anche grazie ai video che girano in rete, della grande forza e perseveranza dei romagnoli. E’ solo una sensazione filtrata dai social o l’hai percepita anche tu, stando h24 a contatto con loro?

Rispetto alla forza dei romagnoli e a quello che si vede nei video si può dire che effettivamente siano una popolazione forte, che si è subito rimboccata le maniche, che cerca di sdrammatizzare nonostante la disperazione. Quindi sì, questa sensazione c’è perché si sono messi subito all’opera senza piangersi addosso. E’ chiaro però che sono stati molto colpiti, quindi adesso, a distanza di qualche giorno, iniziano dinamiche di liti, per esempio tra vicini, se la prendono a volte con i volontari soprattutto nelle zone più isolate, dove comincia ad emergere un po’ di aggressività e di disperazione. Bisogna però dire che questo sottofondo culturale di reazione dei romagnoli si vede e si respira, anche rispetto al numero di volontari che si è attivato. E’ stata una grande catena di aiuti e solidarietà tra migliaia di persone.

Qual era l’atmosfera che si respirava tra voi colleghi volontari? Pur non conoscendovi, siete riusciti ad instaurare un legame collaborativo resistente?

L’atmosfera che si respira tra noi volontari è di assoluta collaborazione, infatti abbiamo una chat molto attiva, abbiamo report diurni, riunioni e zoom online, quindi siamo molto in sintonia e lavoriamo senza alcun tipo di problema, pur con le nostre diversità. Per quanto riguarda gli altri volontari e gli altri psicologi la mia esperienza personale è stata molto positiva, ci siamo sempre aiutati e supportati a vicenda, anche rispetto all’amministrazione e in particolare ai responsabili della fase due, che è la fase che si occupa dell’intervento emergenziale sanitario. Siamo stati molto coinvolti con questi ultimi, che si sono trovati in grande difficoltà, data la portata dell’evento e il numero di cittadini coinvolti. La mia percezione comunque non è stata comunque quella di disagio, invidie o prevaricazioni da parte dei colleghi; tutti abbiamo lavorato di gran lena per raggiungere l’obiettivo, ovvero quello di agire su diversi fronti coordinati senza dispendio energetico eccessivo.

Riusciresti a descrivermi che cosa hai provato al momento del tuo arrivo e poi al momento della partenza?

Quando sono arrivata il mio desiderio principale era quello di andare proprio nelle zone più disastrate per comprendere in quale contesto ti trovi a lavorare, quindi qual è il vissuto della gente. Per questo ho chiesto di andare nei quartieri più distrutti della città e mi sono resa conto che, nonostante quello che si vede in televisione, non è mai come vederlo dal vivo. Ho cercato di raccogliere più informazioni possibili per entrare in empatia e in sintonia con le persone. Sono andata via dicendo “ho raccolto molto di più di quello che ho dato”, in termini di riflessioni, di unione, di risposte, di collaborazione e con la sicurezza che sarei tornata da lì a pochi giorni. In realtà non sarei mai voluta andare via dopo i primi due giorni in cui abbiamo dormito e mangiato insieme a loro nei centri sfollati. Continuo tutt’ora a programmare le mie settimane per poter tornare, anche perché la gente ha davvero bisogno di un grande supporto psicologico.

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