fbpx

Cinema d’autore in Emilia-Romagna: Federico Fellini, il regista visionario

Con “cinema d’autore” si indicano quei film che rispecchiano la personalità del loro regista: sono…

Cinema d'autore in Emilia-Romagna: Federico Fellini, il regista visionario

Con “cinema d’autore” si indicano quei film che rispecchiano la personalità del loro regista: sono quindi film molto personali, curati con una precisione eccezionale, che evidenziano chiaramente lo stile di un autore e che affrontano tematiche esistenziali, anche se calate in un contesto sociale sempre riprodotto attentamente; inoltre, danno meno peso all’intrattenimento, preferendo spingere lo spettatore a riflettere su ciò che vede. Negli anni Cinquanta, dopo il tramonto del neorealismo, in un clima di restaurazione politica emersero o si rinnovarono una serie di registi che rivendicavano un’identità di autori attenti al pieno controllo sul film e che sapevano curarlo nei minimi dettagli, come lo furono ad esempio Fellini e Bertolucci: il loro nome diventava così sinonimo di qualità.

In questa rubrica vogliamo perciò omaggiare alcuni di questi registi nostri corregionali che hanno fatto la storia del cinema italiano e internazionale, e che hanno girato e ambientato diversi film nelle nostre zone. Gli artisti che tratteremo sono in ordine: Bernardo Bertolucci, di cui abbiamo parlato qui, Federico Fellini, Michelangelo Antonioni e Pier Paolo Pasolini. In questo secondo appuntamento, parliamo quindi di Federico Fellini: nato a Rimini il 20 gennaio 1920, è considerato uno dei maggiori e più influenti registi della storia del cinema, realizzando opere ricche di satira e caratterizzate da una sottile malinconia e da uno stile onirico e visionario. I suoi titoli più celebri, tra cui Amarcord, Le notti di Cabiria, 8 e 1/2 e La strada, tutti vincitori del Premio Oscar al miglior film in lingua straniera, sono citati e conosciuti in tutto il mondo, e nel 1993 gli è stato conferito l’Oscar alla carriera.

Fellini si trasferisce a Roma da Rimini nel 1939, e inizia la sua carriera come giornalista: nel 1945 però collabora alle prime sceneggiature, tra cui Roma città aperta e Paisà di Rossellini, film che aprono la stagione neorealista italiana. La sua prima esperienza di regia avviene con Luci del varietà, ma il grande successo arriva con Lo sceicco bianco, che vede Alberto Sordi come protagonista e inaugura lo stile felliniano: si tratta di uno stile nuovo, umoristico, una sorta di realismo magico e onirico, che non viene subito compreso, ma che diventerà il suo marchio di fabbrica e sarà conosciuto in tutto il mondo. Seguono poi una serie di successi di critica e di pubblico, tra cui I vitelloni, La dolce vita, 8 e 1/2, Amarcord, La strada, Il casanova e molti altri, sempre caratterizzati dalla sua personale impronta, che rende i suoi film riconoscibili a colpo d’occhio.

“Felliniano… Avevo sempre sognato, da grande, di fare l’aggettivo”

Fellini adora Roma, e la racconta come nessun altro: ha girato quasi tutti i suoi film a Cinecittà, preferendo sempre gli studi cinematografici alla ripresa dal vero, perché in questo modo aveva il pieno potere e controllo sullo sviluppo della scena, cosa che nelle riprese all’esterno era impossibile da ottenere; lasciava comunque molta libertà agli attori, che non di rado erano non professionisti. Fellini fa nascere ogni sua storia dal suo vissuto personale, ma accanto alla componente della memoria ama anche perdersi in un labirinto di sogni ed epifanie che si accendono nella sua immaginazione.

Il pluripremiato regista muore il 31 ottobre 1993 a seguito di complicanze dovute a un ictus che lo aveva colpito tempo prima; la moglie Giulietta Masina, con cui aveva compiuto 50 anni di matrimonio il giorno prima, morirà pochi mesi dopo. Dopo la sua morte, tutte le strade che sboccano sul lungomare riminese sono state ribattezzate con i nomi dei suoi film, a adornate da cartelli con le rispettive locandine e descrizioni; lo stesso ha fatto la città Nova Siri, in provincia di Matera.

Amarcord esce nel 1973, è un successo ed è certamente il più autobiografico dei film del regista riminese: ambientato a Rimini negli anni Trenta, il titolo stesso, entrato poi nel lessico italiano, significa “mi ricordo” in romagnolo; i ricordi di Fellini ripercorrono così il suo paese, la sua giovinezza, gli amici e le figure che lo circondavano. Lui però non gira nemmeno una scena a Rimini: resta ben piantato nei suoi amatissimi studi di Cinecittà, in cui ricostruisce un borgo che incorpora molti elementi riminesi, tra cui le due piazze, la chiesa e il corso, intentandone altri. Curiosa anche la sua abitudine di inserire nei film, come in questo caso, gente che incontrava per strada, come un senzatetto che il regista trasformò nell’emiro del Grand Hotel, oppure ragazzini della strada accanto; uno in particolare, che si riconosce nella scena dei bambini che giocano con la neve, è un giovanissimo Eros Ramazzotti.

Amarcord, film di memoria e nostalgia con cui Fellini torna in Romagna

Amarcord narra la vita nell’antico borgo di Rimini, San Giuliano, all’inizio degli anni Trenta, in pieno periodo fascista. Nell’arco di un anno si assiste ai valori e al quotidiano del tempo attraverso gli originali abitanti della cittadina: la provocante parrucchiera Gradisca, la ninfomane Volpina, una tabaccaia formosa, un emiro dalle trenta concubine, uno zio matto o forse saggio, e, per non far mancare l’elemento onirico, in una giornata di neve appaiono un bue gigante e un pavone dalle piume dorate. Tutti questi personaggi interagiscono con le tradizioni delle feste di paese, attendono di notte il passaggio del transatlantico Rex e la famosa gara automobilistica delle Mille Miglia; prendono anche parte alle adunate fasciste e ai problemi che comportano, come gli interrogatori condotti per scoprire chi suonasse con un grammofono, che le camicie nere hanno prontamente crivellato di colpi, le note dell’Internazionale, azione con cui Fellini ridicolizza i fascisti e ne rivela la pochezza intellettuale e affettiva.

I veri protagonisti sono però i sogni dei giovani del paese, presi da una prepotente esplosione sessuale: uno di questi è Titta, la cui vita si divide tra l’inarrivabile Gradisca, i grossi seni della tabaccaia e i balli d’estate al Grand Hotel spiati da dietro le siepi. La sua famiglia è composta dall’anarchico padre Aurelio, in costante discordia con la moglie Miranda, lo zio materno Allo (milite fascista ma perenne dongiovanni, che vive sulla spalle dei parenti), lo zio paterno Teo, ricoverato in manicomio e che appena esce sale su un albero, si rifiuta di scendere e grida a gran voce “Voglio una donna!”, e il nonno pieno di salute e di proverbi, che non si fa mai mancare delle libertà con la domestica; tutti questi personaggi e vicende accompagneranno il giovane Titta durante il suo percorso per “diventare grande“.

© riproduzione riservata