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Centro Cure Palliative di Fidenza: l’Hospice che “Non è solo un capolinea”

Oggi, 4 febbraio, si celebra la Giornata Mondiale contro il Cancro promossa dalla Union for…

Hospice Fidenza

Oggi, 4 febbraio, si celebra la Giornata Mondiale contro il Cancro promossa dalla Union for International Cancer Control (UICC) e sostenuta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). In queste occasioni è fisiologico che sia il discorso di lotta e prevenzione dei tumori a catalizzare l’attenzione generale. Nella sua complessità, tuttavia, la questione presenta un altro aspetto troppo sovente lasciato a margine, ovvero quello delle cure palliative. Un argomento per certi versi scomodo, che costringe a confrontarsi con una sfumatura della malattia oncologica spesso trascurata, anche per via delle domande esistenziali che pone a chiunque abbia la forza di affrontarla. Come portavoce di chi questa forza l’ha avuta e vi ricorre tutti i giorni, abbiamo ascoltato le parole della Dottoressa Anna Tedeschi, Direttrice dell’Hospice di Fidenza gestito dall’Auroradomus Cooperativa Sociale Onlus. La sua testimonianza sul Centro Cure Palliative offre non solo una nuova prospettiva sulla malattia, ma vere lezioni di vita, “ponendo sempre al centro di tutto la Persona“.

Come Hospice di Fidenza, potete spiegarci in cosa consistano esattamente le cure palliative? Quant’è importante l’aspetto “umano” della cura per individui affetti da malattie terminali e non?

Le cure palliative intervengono essenzialmente quando tutto ciò che c’era da fare non è più possibile. Tuttavia, non servono solo per il fine vita, come si tende a pensare, ma dovrebbero intervenire in una fase più precoce di una malattia. Per esempio, a oggi per certi tipi di tumore non vi è possibilità di guarigione, ma solo quella di cura per allungare l’aspettativa di vita. In quel contesto, le cure palliative potrebbero essere implementate fin dalla diagnosi a fianco di quelle attive per aiutare la persona innanzitutto a gestire i sintomi più incontrollabili. Inoltre, le cure palliative non si limitato a patologie oncologiche, dal momento che si rivolgono anche a individui affetti da Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA) o dal morbo di Parkinson. In effetti, quando furono introdotte in Italia nei tardi anni ’70, le cure palliative – introdotte da Cicely Saunders a metà degli anni ’50 in Inghilterra – si concentravano prevalentemente su malattie tumorali, ma ad oggi si sono estese per includere un ampio spettro di patologie con un andamento cronico e degenerativo.

L’aspetto centrale delle cure palliative è senz’altro quello umano. Il principio su cui vertono è quello di guardare il paziente come ad una Persona nella sua interezza, senza identificarla in toto con la malattia. Anche per questo è necessario che l’équipe di un Hospice come il nostro sia dotata di competenze tanto mediche, tecniche ed assistenziali quanto relazionali. Infatti, la nostra struttura non si limita a dare pacche sulle spalle e offrire abbracci spirituali, ma accompagna invece la persona lungo tutto il percorso attraverso la parte più preziosa della vita che si approssima al proprio compimento, garantendole la massima serenità possibile, da un punto di vista sanitario, gestionale, e appunto umano. Non a caso l’Hospice può essere un importante luogo di scelta, dal momento che offre uno spazio tranquillo e neutro in cui una persona possa scegliere liberamente per sé stessa secondo ciò che ritiene più opportuno – per esempio, scegliere se morire nel Centro o a casa propria, se avvalersi o meno di mezzi straordinari come la ventilazione meccanica o l’alimentazione artificiale… In tal senso è importante ricordare la Legge 219/2017, la quale verte sul concetto di consenso libero e informato e sulla possibilità per il paziente di pianificare anche il fine vita, valendosi anche della serenità di un ambiente come il nostro Hospice.

Come si configura l’Hospice di Fidenza? Quali caratteristiche devono avere gli ambienti e come è composta la Vostra équipe?

L’Hospice si configura come un luogo di cura che offre una valida alternativa all’assistenza domiciliare quando questa risulti troppo difficoltosa. La complessità clinica di certe situazioni, infatti, dovuta a un aggravamento delle condizioni del malato o alla comparsa di sintomi importanti quali difficoltà respiratorie, può facilmente eccedere le capacità dell’ambiente domestico e dei familiari, a prescindere dalla buona volontà di questi ultimi. Inoltre, non si deve sottovalutare una serie di problemi sociali, quali abitazioni inadeguate, assenza di una rete familiare, caregiver lontani o sottoposti a una pressione anche psicologicamente rilevante… Per questo, l’aspetto principale dell’Hospice è la sua dimensione familiare. La struttura consta di 15 posti letto – 11 stanze singole e due doppie –, e l’ambiente è semplice e a misura di persona, poco medicalizzato, per ricreare l’accoglienza e la semplicità di una casa. Vi è un’attenzione particolare a tutela della privacy e non vi sono i ritmi frenetici di un ospedale. Ai pazienti è anche data la facoltà di arredare le proprie camere con effetti personali – foto, coperte, radio, addirittura la propria poltrona…

Per quanto riguarda la composizione dell’équipe, data la crucialità della componente assistenziale, l’Hospice di Fidenza è a direzione infermieristica, posto che infermieri e OSS debbano avere alte competenze tecniche specifiche nel rispetto di precisi protocolli nazionali e internazionali per gestire situazioni complesse. Accanto a questi, a seguire i pazienti vi sono medici di medicina generale certificati in cure palliative, una decina di volontari che collaborano a rendere piena la vita dei pazienti fino in fondo, e figure convocate al bisogno come il fisioterapista. Poi vi è naturalmente uno psicologo, il cui operato si intreccia a quello di una musicoterapista, la quale permette alle persone di rievocare e rielaborare vissuti ed emozioni passate attraverso un canale alternativo ma allo stesso complementare a quello psicologico – che non tutti sono pronti a intraprendere, anche a causa di preconcetti. Ancora, il cappellano dell’ospedale svolge la funzione di direttore spirituale, che, lungi dal presentarsi esclusivamente come un sacerdote, assiste le persone nel far emergere i propri sentimenti e pensieri in una dimensione spirituale indipendentemente dalla religiosità di ognuno. Infine, periodicamente la struttura è sottoposta alla supervisione clinica e assistenziale da parte di un palliativista, atta ad assicurare il continuo miglioramento e aggiornamento del Centro e della sua équipe. Quest’ultima è poi soggetta a una supervisione psicologica, per poter rielaborare le proprie esperienze e le tematiche affrontate quotidianamente, e gestire così l’impatto notevole di certe situazioni. Non manca anche la consulente di Bioetica che aiuta a dirimere i casi più complessi sotto questo aspetto, fornendo un valido aiuto non solo all’équipe dell’Hospice, ma anche alla persona malata e ai suoi cari.

In ogni caso, non vi sono figure più o meno importanti all’interno dell’équipe, ma ognuno è fondamentale, proprio in virtù della multidimensionalità della persona umana. Per esempio, il miglior biglietto da visita del Centro? L’ordine e la cura dell’ambiente ad opera di chi si occupa delle pulizie, la prima immagine dell’Hospice, che fa subito sentire a proprio agio chi vi entri.

La vostra missione si concentra essenzialmente sulle persone ammalate o è dedicata anche alle loro famiglie?

Come detto, le nostre attenzioni cercando di abbracciare la persona nella sua interezza, e le nostre cure sono il più possibile personalizzate, incluse naturalmente le terapie psicologiche. L’ambiente è però studiato per agevolare non solo il paziente, ma il suo intero nucleo familiare, a cui è rivolta persino un’assistenza psicologica, oltre che l’attenzione generale garantita dall’équipe. L’Hospice è infatti un luogo all’insegna dell’accesso a tutti, dai neonati agli animali. Vi era in passato anche la possibilità per i familiari di soggiornare all’interno della struttura vicino ai propri cari, e l’ingresso era sempre garantito alle famiglie.

Purtroppo, abbiamo sofferto considerevolmente le conseguenze di quasi tre anni di pandemia. Le aperture controllate hanno penalizzato duramente il Centro, il cui spirito di esser sempre aperto a tutti ne ha chiaramente risentito. In un certo senso, la pandemia ha un po’ snaturato la nostra mission, che è volta all’accoglienza e all’integrazione. Le restrizioni hanno infatti costretto il personale a svolgere un ruolo di mediazione tra le esigenze dei pazienti e dei familiari, sacrificando tempo e impegno a discapito dell’assistenza alle persone e alle loro famiglie. Adesso la situazione sta fortunatamente migliorando, e mi auguro che per aprile, come accade ormai per cinema e teatri, si possa tornare a una situazione di normalità anche al Centro.

Quanto il Vostro Centro è integrato con il territorio? Vi è una connessione diretta con l’Ospedale di Vaio? Collaborate anche con altre associazioni locali?

Il Centro ha una valenza assolutamente dinamica all’interno della rete delle cure palliative, e fa dell’integrazione e della collaborazione con l’Ospedale di Vaio e il territorio della provincia di Parma dei cardini fondamentali. In particolare, tale rete è costituita da quattro nodi: l’Hospice, l’Ospedale, il domicilio e l’ambulatorio. Queste quattro realtà sono in un dialogo continuo e legate da rapporti fortemente intrecciati sotto il coordinamento di una Palliativista responsabile della Rete Locale di Cure Palliative. Per esempio, vi è un’importante cooperazione con l’assistenza domiciliare, esemplificata da un progetto condiviso con l’Azienda USL nel Distretto di Fidenza che prevede la collaborazione a domicilio tra infermieri dell’Azienda e del Centro. Sempre con l’AUSL è inoltre nato recentemente il progetto H12/H24, secondo cui l’Hospice si interfaccerebbe nei fine settimana con i familiari dei pazienti a domicilio per garantire un monitoraggio e un’assistenza domiciliare più puntuali – attraverso interviste strutturate per far fronte a eventuali criticità anche grazie all’intervento della guardia medica.

Vi è poi un’integrazione profonda con i tre ospedali della provincia, e in particolare con quello di Fidenza. Per esempio, io faccio parte dell’unità di valutazione palliativa che si occupa di effettuare consulenze in Ospedale per valutare in équipe bisogni specifici e i setting di cura ideali per i pazienti. D’altra parte, l’integrazione e il lavoro di squadra rientrano nella natura stessa delle cure palliative, che non possono essere appannaggio di singoli professionisti. Anche per questo l’Hospice non è solo un capolinea, ma piuttosto un centro dinamico in cui risolvere delle problematiche in contatto e dialogo con altre realtà.

Ritenete che un servizio come il Vostro goda di una risonanza adeguata alla sua importanza? In caso di risposta negativa, quali pensate che siano le cause di questo squilibrio?

Purtroppo, fin dalla sua nascita il Centro è stato penalizzato da una risonanza negativa, nonostante la promozione di molte iniziative per parlare di queste tematiche. In tal senso occorrerebbe farne di più e in continuazione, perché non è semplice far comprendere la logica delle cure palliative e la funzione dell’Hospice, anche a causa di una serie di preconcetti ben radicati. A tal proposito, il 9 febbraio vi sarà un convegno organizzato dalla Pastorale della Salute di Fidenza per discutere di questi argomenti, in San Michele, alle 20.30.

In generale, molto spesso si conferisce una valenza sproporzionata alla medicina che guarisce, col rischio che ci si convinca di una sorta di onnipotenza della medicina oncologica in grado di guarire tutti, dando aspettative talvolta troppo alte anche a persone molto anziane. Questo tipo di narrativa ritrae l’Hospice come una sconfitta, sia per il paziente sia per il medico professionista. Tuttavia, senza nulla togliere al discorso essenziale di prevenzione e cura, occorre correggere la narrativa d’immortalità e posticipazione della morte, potenziata anche dai media intasati da pubblicità di parafarmaci che esaltano la ricerca di un’eterna giovinezza e la lotta senza sosta all’invecchiamento. La morte è infatti parte integrante della vita, ne è anzi il suo compimento e dunque il termine più prezioso, da un certo punto di vista, ed è importante affrontare l’argomento anziché nasconderlo o rinviarlo finché è troppo tardi. Vi è invece spesso un’ostinata ritrosia nell’accettare l’evoluzione infausta della malattia, non solo da parte del malato, ma anche della sua famiglia.

Le cure palliative erano e rimangono dunque una cenerentola, e nonostante gli sforzi – come l’impulso dato dalla Legge 38/2010, incentrata sul diritto del cittadino alle cure palliative e alla terapia del dolore, e lo spazio concesso dalla già citata Legge 219/2017 – c’è ancora molta strada da fare. Soprattutto per raggiungere chi non mostra sensibilità per certi argomenti, o perché distratto da altro o perché magari non disposto a interpellarsi su concetti esistenziali quali vita, morte, sofferenza… la cui metabolizzazione è tuttavia necessaria, nonché al cuore della nostra mission.

Vista la Vostra esperienza, quali consigli darebbe sul comportamento generale da assumere nei confronti di una persona affetta da una malattia terminale? Vi sono degli atteggiamenti che, seppur mossi da buone intenzioni, possono risultare offensivi o riduttivi?

Sono ancora piuttosto presenti atteggiamenti paternalistici molto negativi, figli di un certo modo di fare medicina molto diffuso in passato. Il comportamento da seguire consisterebbe invece nel fornire informazioni corrette e trasparenti per far sì che il paziente – o chi sia stato delegato a farne le veci – possa compiere delle scelte libere e consapevoli sulle cure e i trattamenti da affrontare, sulla base di un quadro preciso e realistico della situazione.

Un altro atteggiamento da evitare consiste nel confondere la patologia con l’intera personalità delle persone malate, con il rischio di trattarle con sufficienza e rivolgersi a loro come se fossero dei bambini. Nel caso, per esempio, di una persona affetta da demenza, occorre capire com’era la persona prima che la malattia raggiungesse livelli gravi, quali erano le sue aspettative e i suoi desideri, e trattarla di conseguenza, ricordandola com’era prima. In altre parole, trattarla da Persona, con il massimo rispetto e senza sminuirla.

In questo senso, anche la dimensione del corpo è importantissima. Infatti, è fondamentale garantire il massimo della privacy e della delicatezza, soprattutto per situazioni che potrebbero risultare imbarazzanti per la persona malata. Occorre dunque evitare di de-personalizzare il paziente, come talvolta può accadere in istituti ospedalieri con un alto numero di ricoveri. All’Hospice abbiamo naturalmente delle regole e delle norme da seguire, ma al centro di tutto poniamo la Persona, ed è l’organizzazione a ruotarvi intorno, non il contrario.

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