Street Art, Rise the Cat: “Il carnevalesco che strappa lacrime e sorrisi” | INTERVISTA
Camminando per le strade di Parma e provincia è inevitabile imbattersi in affascinanti opere di…
Camminando per le strade di Parma e provincia è inevitabile imbattersi in affascinanti opere di street art e graffitismo, opere cariche di forte valenza culturale e politica che rivitalizzano spazi spesso abbandonati o soggetti a incuria e trascuratezza. Autore di alcune delle opere più memorabili di questo genere è Rise The Cat, illustratore e street artist parmigiano che crede nell’importanza di impiegare l’arte di strada per fare attivismo, fornire l’opportunità alle voci più ignorate di partecipare al discorso pubblico e dare nuova vita all’architettura parmense. Laureato in antropologia all’Università di Bologna e in illustrazione presso l’ISIA Urbino, Rise riassume nel suo percorso artistico il suo marcato interesse per i temi umanistici e socio-culturali e l’incontro stilistico tra universi artistici solo apparentemente lontani, l’illustrazione e la street art.
Puoi parlarmi del tuo percorso artistico nel mondo della street art, l’evoluzione del tuo progetto con il passare degli anni?
Ho cominciato con il writing vero e proprio, con i graffiti. In città avevamo una crew, eravamo in quattro o cinque e sperimentavamo principalmente con le lettere. Poi ho avuto questa spinta verso il figurativo – un po’ perché nelle lettere non ero fortissimo, un po’ perché mi annoiava la calligrafia dura e pura – quindi ho cominciato a fare un po’ di questi disegni più figurativi che andavano poi in composizione con le scritte degli altri. Ho cominciato a fare questo figurativo molto rapido e sono partito direttamente sintetizzando le cose, perché di base quando lavori in strada non hai tanto tempo. Davo poco valore al bozzetto su carta prima di lavorare a un disegno per il muro perché i bozzetti per me erano cose che andavano direttamente sulla parete. Quando poi ho cominciato a fare dei bozzetti più carini ho detto “Boh, forse potrei anche fare solo dei disegni che non vanno sul muro” e quindi quella è stata la svolta nell’illustrazione. Il writing di per sé, che nasce dall’hip-hop con la cultura americana, è molto autoreferenziale nel suo spirito e un po’, simpaticamente, i miei amici mi snobbavano col fatto che il figurativo viene sempre visto come fuori dalla tradizione. Da lì io ho fatto altro, ho seguito un altro corso di studi che non riguardava l’arte e mi sono interessato all’illustrazione perché mi affascinava il mondo dei libri illustrati e il lavoro con i bambini mi è sempre piaciuto. Ho fatto questa magistrale in Illustrazione a ISIA Urbino per focalizzarmi su quel mondo da un punto di vista professionale.
Un tema che sembra ricorrere spesso nelle tue opere è l’importanza della preservazione della memoria collettiva e della partecipazione politica, specialmente indirizzato alle nuove generazioni. L’opera ‘Amnesia‘, realizzata nel 2021, e accompagnata su Instagram dalla caption ‘Se perdiamo i nostri ricordi cosa resta di noi?’ colpisce nel profondo e sembra rappresentare una linea di connessione tra alcune delle tue più importanti opere. Credi che il writing e la street art possano fare differenza per smuovere le coscienze collettive?
Quell’illustrazione deriva da una riflessione molto antropologica, sul fatto che siamo vestiti di un habitus – che è sia un abito che un’abitudine, un’attitudine, un’incorporazione della cultura – quello che siamo è fatto anche di quello che è venuto prima di noi, tutto ciò che si è sedimentato lì , che si sviluppa e si modifica tutti i giorni e porta a guardare il passato con un occhio rivolto al futuro. Quindi, diciamo, quello era un ragionamento tematico anche da un punto di vista sanitario legato all’alzheimer – com’è che a un certo punto tu perdi ogni collegamento con l’esterno? Cosa diventi se non hai nessun collegamento in termini di appartenenza – anche di pensiero politico e sociale – esterna? Diventi un mucchio di post-it, se prendi una folata di vento di fatto non c’è sotto niente. Per collegarmi all’argomento del politico, del messaggio – la cosa che mi è sempre molto piaciuta dell’illustrazione è che ha sì un messaggio ma si rifà molto a un’espressività del disegno. Nel caso del quadro o dell’opera esposta in galleria c’è spesso il curatore che definisce il percorso dell’artista e la sua linea concettuale, mentre l’illustratore si mette al servizio di un concetto col suo stile – però sempre in riferimento a un testo la cui interpretazione può essere anche libera. Io, come tanti miei coetanei e artisti che lavorano sui muri, ho avuto un micro passato in cui facevo parte di collettivi che lavoravano su temi come il diritto alla casa, il diritto all’autodeterminazione, la salvaguardia del movimento migrante e antifascista – un po’ tutto quello che riguarda il tema dell’attivismo, quello che chiamano dei ‘centri sociali’. Centri che purtroppo non ci sono più, fra l’altro. Quindi ho avuto un occhio di riguardo nei confronti della politica – mi sono sempre reso conto che la mia passione poteva essere un mezzo efficace per parlare di certe cose. Andavo spesso a fare striscioni quando facevamo le assemblee e capitava di fare muri anche nelle occupazioni – ho sempre avuto questo interesse.
I temi più tristi oggi sono anche temi fortemente politici, uno in particolare è quello della questione palestinese. Sul tema della Palestina sono specificatamente sensibile perché ci sono stato nel 2015 per un viaggio di volontariato, lì ho dipinto su muro con i bambini in questo centro giovani dove facevamo attività laboratoriali. Tornando, ho sempre mantenuto un rapporto con un paio di persone là e costantemente partecipo ad eventi che riguardano la sensibilizzazione sul tema. Vendo anche mie magliette, mie stampe – anche recentemente ne ho realizzata una – per raccogliere dei fondi, purtroppo quasi inutili rispetto al problema di cui parliamo, per riuscire a vendere le mie stampe e con il ricavato mandare soldi là. Ho lavorato su svariati temi che riguardano la legalità, per esempio il murale alla stazione di Fornovo. Lì va aperta una parentesi perché è una caserma della Polizia Locale – è stata una cosa epica, è stato come passare al lato oscuro. Il comandante della Polizia Locale, abbiamo stretto un rapporto molto interessante e professionale, crede molto nell’avvicinamento dei giovani alle forze dell’ordine e viceversa – soprattutto viceversa, abbiamo lavorato a questa cosa insieme nell’ottica di vedere la caserma non più come un luogo dove ti si levano dei diritti ma dove, tendenzialmente, dovrebbero dartene. Parallelamente, lavorando spesso ad attività laboratoriali con le cooperative e l’educativa di strada mi rendo conto che il primo problema che hanno i giovani, in particolare gli adolescenti, quando si cerca di avvicinarli per provare a progettare i disegni insieme da fare in strada – la prima cosa che mi chiedono è “Ma sei un borghese?” e rispondo “Ma certo che no, sennò non farei graffiti.”. Però c’è una grande sfiducia verso le istituzioni e – purtroppo anche visto le cose che sono accadute – i giovani fanno molta fatica a fidarsi, soprattutto se di seconda generazione. La street art è un veicolo, a volte un po’ grottesco o carnevalesco nel modo in cui si possono dire le cose, per strappare un sorriso che poi quando vai a casa si può trasformare anche in una lacrima.
Lavori spesso in collaborazione con scuole e centri giovani per revitalizzare gli edifici scolastici e permettere ai ragazzi di esprimere la propria creatività, far sentire la propria voce e osservare da una nuova prospettiva il mondo che li circonda. Come vivi queste esperienze? Credi che progetti come questi siano utili per reinventare un nuovo approccio al sistema educativo, più inclusivo e interattivo e coinvolgente per gli studenti? Lavorare con i ragazzi ti permette di crescere artisticamente?
Ultimamente sto lavorando tantissimo sia con scuole che con centri giovani e cooperative. È nato tutto un po’ per caso, ho dipinto una volta un pannello per “Libera, Associazioni, nomi e numeri contro le mafie” e un’educatrice mi ha chiesto di replicare quell’opera e di dipingerla con i ragazzi qui a Parma. Da lì è stato un po’ un passaparola, ho colmato un buco che non esisteva qui – in Italia poi ce ne sono tanti che lo fanno. Quello che credo è che sicuramente siamo riusciti a dare vita a delle situazioni in cui abbiamo responsabilizzato dei ragazzi, ragazze, bambini e bambine che magari rischiavano di non finire l’anno o di non andare più a scuola. Li abbiamo, secondo me, resi protagonisti dell’ambiente – il che è stato interessante. Dico “li abbiamo” perché quando dipingo non sono mai solo, ci sono sempre o un insegnante o un educatore che mi affiancano – colmano le mie lacune perché non ho quella formazione. Abbiamo anche assistito a delle situazioni molto piacevoli in cui alcuni ragazzi borderline con delle relazioni destrutturate e a volte malsane venivano a scuola dicendo “Guarda, quello l’ho fatto io!” del dipinto dentro la scuola o magari all’esterno. Quello che ho esperito nel tempo è stato questo principalmente, l’importanza di sentirsi protagonisti di un ambiente che non è solo quello della strada dove ci si fa le canne ma è, a volte, anche quello istituzionale. Nella scuola, poi, ci sono sempre più giovani per fortuna – questo è un momento in cui l’età pensionistica della maggior parte degli insegnanti sta arrivando quindi c’è un grande ricambio. Ho lavorato a stretto contatto con i miei coetanei – purtroppo tutti precari, il che li rende spesso meno motivati. Però il fatto che ci siano insegnanti giovani con uno sguardo più fresco consente di pensare a delle cose che, banalmente, quando andavo a scuola io non erano abituali. Quello che vedo nei giovani, in modo generalizzato, è la propensione alla parità di genere, al ragionare sulla sessualità in modo più fluido – stanno più facilmente tra maschi e femmine. Imparo delle cose da queste esperienze? Sicuramente sì, in primis questo – il modo di rapportarsi fra di loro – in secondo luogo conosco meglio la trap – mi fanno ascoltare delle cose incredibili. Io vengo dall’hip hop e non conosco bene questo genere, però mi fanno ascoltare delle cose fantastiche, che a volte non apprezzo troppo – con messaggi molto machisti e gangster – altre volte devo dire che siccome spesso sono di seconda generazione mi fanno ascoltare tanta trap franco-algerina e vengono fuori delle discussioni interessanti. Infatti, spesso discutiamo sul perché – per quanto a volte abbiano solo tredici anni – provino fascino nel vedere questo tipo di cantanti o di situazioni. Lo stesso accadeva a me con l’hip hop quando ho iniziato a fare graffiti quindi un po’ li capisco. Dal punto di vista stilistico mi hanno insegnato tantissimo, specialmente i più piccoli e le più piccole, perché ho sempre avuto uno stile abbastanza naif – non mi è mai interessato molto l’iperrealismo per il mio percorso – però ho sintetizzato ancora di più dipingendo in questi contesti perché devi semplificare il lavoro per poter collaborare con gli altri. Io non sono bravissimo a insegnare a disegnare ma sono bravo a costruire dei progetti – ho imparato a sintetizzare tanto e sto lavorando tantissimo su questo.
Secondo la tua esperienza, è possibile fare del writing e della street art un mestiere che permetta di essere autonomo? Oppure è ancora necessario viverlo come passione da accompagnare a un secondo lavoro più tradizionale? Avendo collaborato spesso con istituti e progetti comunitari, credi che la progressiva apertura delle istituzioni e scuole al mondo della street art possa cambiare le cose negli anni futuri? Cosa consiglieresti ad altri aspiranti street artist che sognano di farne un lavoro?
Quello che è successo a me, dopo che ho fatto altri tipi di lavori nella ristorazione e a contatto con la gente, è stato che a un certo punto mi sono reso conto che volevo fare qualcosa di mio, ho capito che mi piaceva molto dipingere – soprattutto all’esterno, sui muri. Ho iniziato un percorso di focalizzazione solo su quello, è stata una scelta necessaria perché facendo anche altre attività – già dipingevo e lavoravo a commissioni – finivo per fare tantissima fatica. Una volta finito di lavorare non avevo voglia di disegnare e viceversa. In realtà anche questo è assolutamente un lavoro – anche io mi frego con le parole, la società ci frega con le parole spesso. Si lavora un po’ sempre, quando qualcuno mi chiede un progetto e mi detta il tema io poi da lì a quando lo faccio ci penso. In questo momento, sperando che questa cosa vada avanti per sempre perché mi piace moltissimo, la street art è una fonte di sostentamento che mi basta e, facendo una vita abbastanza umile, riesco a fare solo questo – è una grossa fortuna. Ti devi sempre costruire tu, nel senso che non viene mai nessuno a suonarti a casa e devi cominciare ad avere un giro di contatti. Io ho girato il mio portfolio a tantissime realtà quindi cominciano ad esserci dei ritorni – qualche realtà interessante che comincia a chiamarmi c’è. Tante cose me le costruisco io con gli educatori e le scuole con cui lavoro e tramite i progetti che penso da nuovo. Per quanto riguarda cosa vedo nel futuro – leggendo anche i dati in generale, le partite IVA o comunque i liberi professionisti stanno aumentando in termini esponenziali. Da un lato per una questione negativa, cioè che non ti assume più nessuno se non hai la partita IVA, dall’altro c’è anche da dire che tante persone si sono rotte le scatole di essere sotto un capo che dice loro cosa fare. In questo discorso si lega anche il tema dell’alienazione, tu sei proiettato su un lavoro che però non ti dà un vero guadagno né emotivo, né creativo, né personale – non sei in diretto contatto con quello che produci e secondo me questo ha un impatto sempre più forte nei giovani soprattutto che – vuoi per la mancanza di prospettive vere, vuoi per la situazione politica in cui viviamo – arrivano a un punto anche nichilistico per cui dicono “Io voglio fare di mio, non voglio più essere solo vittima di un sistema che mi fa produrre cose”. Siamo vittime pure noi artisti indipendenti, a volte si fanno dei lavori che non sono proprio quello che vuoi fare – la committenza spesso è così. La libertà che vorrei arrivare ad avere e poter dire di no ai lavori, un po’ lo faccio già ma non sempre, ovviamente. Mi sono trovato a boicottare dei bandi in cui non credo che sicuramente mi avrebbero fatto comodo ma che non ho trovato nelle mie corde, sostanzialmente. Si fa fatica, è un bel lavoro e soprattutto ti porta a contatto con tantissime realtà di persone che fanno ciò che sognano di fare – secondo me questo ti migliora da un punto di vista personale, io lavoro molto anche sulla mia psiche – come penso dovrebbero fare tutti. Nel momento in cui fai una cosa che ti piace e incontri persone che sono come te viene a facilitarsi la comunicazione e lavori meglio ai tuoi progetti perché sei immerso in un contesto stimolante.
Una gran parte delle tue opere è realizzata tra le strade e gli edifici di Parma e provincia. Quanto impatta il tuo legame con questo territorio nella realizzazione dei tuoi lavori? Hai un preferito tra i tuoi progetti, un’opera che per te ha ancora un significato particolarmente intimo?
A Parma ho lavorato tanto, è comunque una città che sento super vicina. Sono sempre stato qua se non per studio e altre situazioni però la mia base è sempre stata questa. La soffro anche, come sempre accade nella propria città, perché all’inizio è stato difficile avere un posto nel territorio ed essere riconosciuto per quello che facevo. C’è sempre una grande voglia di esterofilia e quindi vengono più spesso chiamati artisti da fuori perché fanno più prestigio e quindi non è stato facile trovare uno spazio. Ci sono occasioni per cui riesco a lavorare bene, soprattutto su temi a cui sono particolarmente legato come quello della Resistenza negli anni ’20, delle Barricate, delle osterie e della cultura popolare. Ho fatto vari disegni sulle Barricate, ho realizzato una graphic novel due anni fa insieme a Francesco Pelosi, uno sceneggiatore e amico con cui abbiamo dato vita a questo lavoro per il centenario sulla figura di Guido Picelli. Forse una delle opere a cui sono legato di più è proprio quella alla stazione di Fornovo, perché è stata un’esperienza un po’ particolare e l’altra potrebbe essere quella molto più grande alla Scuola Vicini, in via Milano a Parma. Abbiamo lavorato con un’equipe veramente immensa – composta da studenti delle scuole medie, persone con disabilità gravi o meno gravi e una decina di volontari internazionali che sono venuti un po’ dappertutto dall’Europa. È stata una prova di cosa significa concretamente il concetto di ‘inclusione’, dove tutti hanno la possibilità di dare una pennellata e proporre un’idea. Io di base lavoro con un format molto semplice in cui chiedo a tutti di proporre un’idea sul tema che ci si dà insieme e poi faccio una sorta di sintesi – cerco di creare un sunto tra tutti gli stimoli che mi arrivano dalle persone che partecipano nei laboratori. Tutto ciò è molto bello perché le persone si riconoscono in quello che facciamo. Parallelamente organizzo un evento tutti gli anni a giugno in provincia di Parma, originariamente una jam di graffiti che adesso si sta un po’ espandendo cercando di coinvolgere giovani che non hanno magari nulla da fare al pomeriggio e artisti di vario tipo – è importante anche per dare un po’ di voce alla provincia che soffre tanto l’abbandono.”
In questo periodo stai lavorando al progetto B.e.S Bestie Effimere Speciali con gli artisti Flo, Rosmunda, Mat Cenere e Luna. Raccontaci questa tua esperienza, le motivazioni che sono alla base di questa iniziativa e i vostri piani futuri.
Il progetto nasce proprio da questa jam di graffiti che organizziamo a Fontanellato in un parco che è stato costruito come bene di compensazione perché, realizzata la linea TAV, è arrivata la decisione di progettarlo per dare un po’ più di dignità all’area. L’anno scorso si è creata una compagnia molto solida, ci siamo trovati molto bene da un punto di vista umano con certe persone e da lì abbiamo deciso di iniziare questo processo che non sappiamo bene dove ci porterà, di lavoro collettivo. Una parte di noi viene dal mondo dell’arte urbana, tutti siamo illustratori, tutti lavoriamo con le scuole e facciamo laboratori quindi abbiamo detto “Perché non provare a mettere insieme le forze?” e partendo dall’interesse verso l’illustrazione e i murales ora facciamo una serie di progetti a dieci mani su un mondo che ci creiamo noi. Abbiamo dato vita a questo mondo di bestie appunto effimere – questo perché il gruppo non si sa se andrà avanti – speciali – perché siamo un po’ ‘specialoni’ come siamo tutti – e bestie perché di fatto ci siamo creati degli avatar. B.e.S in realtà è una sigla che si usa molto nell’educazione perché sono appunto i ‘bisogni educativi speciali‘, quindi abbiamo creato un po’ questo simpatico parallelismo. Il progetto è stato presentato al Ratatà Festival lo scorso weekend ( dal 13 al 14 aprile ) a Iesi – un festival di auto produzione molto importante in Italia che riunisce molti illustratori e artisti che lavorano su muro. Spesso lavoriamo in equipe con non specialisti – è molto difficile collaborare in team tra addetti ai lavori, perché un artista – se è anche un po’ egotico – vuole fare le sue cose, giustamente, quindi è complicato piegare il proprio stile, concetti e ricerca a un progetto comune – invece in questo caso sta funzionando. Abbiamo dato vita anche a un gioco di carte memory illustrate, tutta una serie di prodotti serigrafati sia per capi che per stampe, un libro da colorare con attenzione ai bambini e adesso l’idea è di sviluppare questa cosa con Luna, Rosmunda, Mat e Flo e far sì che questo progetto vada avanti. Non ci siamo dati una scadenza, vediamo se questo progetto dura o no. Abbiamo scelto il carattere effimero proprio per non avere nessun obbligo nei confronti reciproci però abbiamo visto che sta funzionando e, insomma, è un inizio.
Sulla pagina Instagram del Collettivo B.e.S descrivi uno dei tuoi progetti futuri, ‘un albo illustrato che parla di noi tuttu’. Cosa puoi anticiparci su questa tua nuova opera? Hai già in programma ulteriori progetti e collaborazioni?
Questo albo illustrato è la mia tesi di laurea – è una storia distopica in bianco e nero. Io sull’illustrazione ho un grosso problema di coerenza nel senso che utilizzo sempre delle figure simili, una composizione simile, ma poi lavoro quasi solo in bianco e nero sulla carta stampata. In questo caso è stato interessante perché era la fine di un percorso che avrei comunque dovuto realizzare e non volendolo lasciare in un cassetto ho incominciato a proporlo un po’ ma adesso non posso dire niente – nel senso che non so niente. Però ci sono state delle buone risposte, so che è in questo limbo di e-mail in cui qualcuno dovrà dire qualcosa. Speriamo bene, c’è ancora tanto lavoro da fare. Tenere un piede nell’illustrazione mi piace molto, intanto perché è un supporto diverso e un modo in più per disegnare e poi perché riuscire a lavorare affianco a un testo è sempre un esercizio interessante perché stimola un altro modo di vedere le cose. Questo vale anche per chi scrive, nel senso che capita che qualcuno disegni qualcosa e poi che venga scritto qualcosa di quel disegno. Qualsiasi opera è un dialogo in cui nessuna delle due parti deve superare l’altra, il testo deve essere al servizio del disegno e viceversa – è un esercizio interessante che io cerco di portare anche sui muri, ho sempre un testo di riferimento che magari scrivo io o che viene da cose che leggo, mi aiuta molto lavorare su un concetto. Progetti futuri? Sì, tantissimi. A maggio vado in Svezia, per la prima volta vado fare un lavoro all’estero importante, quindi sono molto contento. Tutto il resto è un grande casino, non si sa quello che succederà – tante proposte, cose che possono andare o forse no, si vedrà!